Eccoli lì, gli esperti: ce li ritroviamo davanti a tutte le ore del giorno in ogni canale televisivo, ascoltiamo i loro sagaci interventi attraverso qualsiasi stazione radio, leggiamo le loro allarmanti previsioni su quotidiani e riviste più o meno specializzate. Sono antropologi, astrologi, climatologi, criminologi, dietologi, grafologi, massmediologi, narratologi, paesologi, psicologi, parapsicologi, politologi, semiologi, ufologi (in rigoroso ordine alfabetico). Oggi soprattutto imperversano con implacabile presenzialismo batteriologi, infettivologi, virologi. Qualcuno di loro, spesso lautamente remunerato, ha candidamente ammesso il proprio narcisismo, altri – presi da delirante senso di onnipotenza – si improvvisano soloni ferrati in ogni scibile umano: tuttologi. Astrofisici che discettano di oncologia, medici che offrono il loro illuminato parere sul fenomeno mafioso, giuristi che dissertano di teologia. Perché ne abbiamo tanto bisogno? Perché li ascoltiamo con umile reverenza, seguendo docilmente i loro consigli, suggerimenti, imperiosi diktat, demandando alla loro decantata professionalità e scientificità i nostri comportamenti, addirittura le nostre idee?
Davide Caselli (Milano, 1981) ha pubblicato per Il Mulino un dotto e documentato volume (Esperti, Come studiarli e perché) in cui analizza la complessa relazione esistente tra chi riveste l’ambito ruolo di esperto e il mondo politico-sociale-amministrativo-finanziario-culturale in cui è inserito.
Partendo dalla propria decennale esperienza di operatore sociale in un quartiere periferico di Milano, con l’incarico di segnalare e assistere situazioni di disagio e povertà nelle classi popolari, Caselli ha condotto la sua ricerca di dottorato in sociologia su vari progetti di coesione sociale e sui piani di sviluppo del welfare nel territorio lombardo, misurando il gap esistente tra il lavoro svolto empiricamente sul campo e i saperi ufficialmente riconosciuti in ambito pubblico, affidati a consulenti e ricercatori specializzati, i cosiddetti “esperti”. Le analisi tecniche, la definizione e la valutazione di strumenti operativi, i progetti e gli studi di fattibilità venivano e vengono tuttora scritti, monitorati e valutati dagli stessi enti e consulenti che definiscono le linee guida, il gergo settoriale e i bandi di concorso dei principali finanziatori, pubblici e privati, escludendo di fatto da sovvenzioni, convegni, ricerche universitarie i cittadini attivi nel terzo settore su base volontaria.
In questo scenario di crescente professionalizzazione, a chi spetta il compito dell’analisi critica del rapporto tra conoscenza e azione, tra sapere e potere “alla luce della progressiva affermazione globale del modello di accumulazione neoliberista a trazione finanziaria”? Sono interrogativi su cui da perlomeno due secoli si interroga la scienza sociale, a partire dai suoi fondatori (Comte, Marx, Durkheim, Weber) per arrivare ai loro epigoni contemporanei (Hacking, Bauman, Foucault, Eyal, Bourdieu, fino ai più emotivamente carismatici Danilo Dolci e Paulo Freire).
Gli esperti, legittimati nella loro operatività da criteri extra-scientifici ed extra-intellettuali, in cui sembra prevalere il know how sul know why, sono perlopiù rappresentati da categorie professionali o singoli individui scelti in base a una competenza pratica e a un agire sociale spesso non canonicamente definito o istituzionalizzato, ma connesso con una rete di clienti, strumenti, assetti sociali in grado di riconoscerli come produttori di saperi specifici e articolati. Essi si muovono tra una dimensione cognitiva e una normativa, tra conoscenza della società e capacità di orientarne l’agire, tra descrizione della realtà e prescrizione “di ciò che la realtà deve continuare a essere o deve diventare, e del modo in cui ciascuno deve contribuire a riprodurla o a modificarla”. Per nulla imparziali e oggettivi, quindi, gli esperti tendono a incoraggiare “forme di produzione, diffusione e applicazione del sapere segnate dalla chiusura elitaria e dal monopolio professionale”, riproducendo rapporti di potere sotto l’apparente neutralità della competenza professionale.
Il libro di Davide Caselli, corredato da una ricchissima bibliografia, si articola in cinque capitoli introdotti da brani di diario, interviste, spunti di cronaca relativi ai nuclei tematici individuati, riguardanti non solo il welfare milanese, ma il più vasto panorama nazionale dell’economia, del lavoro, del mercato, dell’istruzione, della medicina, della cultura. Sulla base di tali considerazioni, l’autore auspica l’avvio di forme alternative e democratiche di elaborazione e trasmissione della conoscenza, onde evitare il pericolo che i “non esperti” vengano espropriati delle loro abilità, interessi, culture diverse, attraverso la squalificazione esercitata dagli “esperti”, al punto da venire delegittimati all’impegno, privati del diritto alla visibilità e confinati in ruoli d’azione marginali.
DAVIDE CASELLI, ESPERTI. COME STUDIARLI E PERCHÉ – IL MULINO, BOLOGNA 2020, p. 200
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