I ricordi e le emozioni dei boomer non aiutano a migliorare la scuola italiana

20 Luglio 2023

Mi si perdonerà l’insensibilità, ma occorre rilevare il fatto che Paola Mastrocola sia nata nel 1956 e che abbia frequentato la scuola superiore assieme al 40,8% dei suoi coetanei (35,9% le ragazze, 45,5 i ragazzi). Lo scrivente è nato nel 1967 e la percentuale non era salita di molto attestandosi al 51,7%. Fu raggiunta, almeno, la parità di genere (fonte ISTAT). L’approccio emotivo ai problemi scolastici della mia generazione e di chi appartiene a quelle precedenti, troppo spesso risulta affetto da questa distorsione nelle aspettative, fornendo soluzioni che sono naturalmente condannate al falliento. Esiste poi una sterminata letteratura che ci racconta del disprezzo che da migliaia di anni investe i giovani, a prescindere dalla storia e dalla geografia.

Solo nel 2006 si è resa obbligatoria la scuola fino a quindici anni, aggiungendo l’obbligo formativo fino alla maggiore età o fino al conseguimento di un diploma triennale. Già allora la percentuale di persone iscritte alle cosiddette “scuole superiori” andava di poco oltre al 90% e questa percentuale è salita ancora nell’ultimo decennio raggiungendo la saturazione.

Gli studenti e le studentesse, così come le famiglie e la nostra società, sono cambiate. Sono sempre più abituate a godere di diritti che sono persino inscritti nella legislazione vigente.

Sono tuttavia anche cambiati gli insegnanti, sempre meno selezionati da concorsi, formati da università online sulle quali occorrerebbe aprire una seria riflessione, e tutelati da una magistratura del lavoro molto benevola anche quando la normativa consentirebbe di affrontare i casi spinosi degli incapaci, percentualmente pochi, ma visibili e molto dolorosi. Vale la pena ricordare l’art. 512 “Dispensa dal servizio” del Testo Unico della scuola (1994), nel quale si legge che il personale docente è dispensato dal servizio per persistente insufficiente rendimento. Ha destato scalpore l’unico caso che io conosca, recentemente emerso, di applicazione di questo articolo, avvenuta nel caso di un’insegnante che dava voti a caso dopo avere lavorato per quattro anni sui ventiquattro di servizio formale. Questa insegnante, peraltro, aveva vinto in primo grado.

In buona sostanza, occorre interrogarci sempre con maggiore attenzione, quando certi episodi di insubordinazione assurgono agli onori della cronaca, quanto questa sia da attribuire alle nuove generazioni rimbambite dalle tecnologie (mentre la mia generazione era rimbambita dalla musica Rock, dall’uso dello walkman e dalla televisione) e quanto questa sia da attribuire ad adulti che non sono stati sufficientemente professionlizzati sul fronte della didattica inclusiva, che ignorano gli elementari principi delle dinamiche di gruppo, che non sono in grado di contenere tecnicamente i disturbi oppositivi perché si pongono in maniera stereotipata nei confronti della problematica, che non sono esperti di apprendimento né di neuroscienze né di psicologia dell’età evolutiva, e quindi non sono in grado di coltivare il desiderio di apprendere e la curiosità naturale dei giovani che appassisce o si trasforma in frustrazione per degenerare più spesso nella depressione e nei disturbi alimentari che non vede nessuno, piuttosto che nella violenza che assurge agli onori della cronaca. Eppure con opportune gratificazioni e con l’incoraggiamento al quale i giovani anelano perché cercano punti di riferimento fuori dalla famiglia, si potrebbero raggiungere grandi risultati. Occorre quindi evitare di affidarsi solo a feedback frustranti quali il voto numerico (si pensi al potere trasformativo della valutazione educativa attivata nella scuola primaria coi giudizi descrittivi), e ampliare lo spettro dell’offerta didattica entro quella che valorizzi l’attivismo al quale i/le giovani sono naturalmente portati, mentre sono troppo spesso inchiodati sul banco per sei ore al giorno.

Un tempo la scuola garantiva un futuro occupazionale, cosa che è sempre meno vera. Un tempo, assoggettarsi al potere indiscusso dell’insegnante consentiva comunque di raggiungere un premio finale che andava dal posto in banca a quello in fabbrica. Oggi il credito sociale dell’insegnante si conquista con una professionalità che è diversa da quella di cinquant’anni fa. Fortunatamente molti insegnanti e molte insegnanti l’hanno raggiunta perché, se così non fosse, la scuola sarebbe già implosa, mentre qui ci troviamo a commentare casi isolati di cui, in verità, sappiamo molto poco.

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Un commento

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  1. dino-villatico 9 mesi fa

    “Eppure con opportune gratificazioni e con l’incoraggiamento al quale i giovani anelano perché cercano punti di riferimento fuori dalla famiglia, si potrebbero raggiungere grandi risultati”. Confermo. 40 anni d’insegnamento lo confermano. Il punto fondamentale sta nello sforzo di capire. Capire anche questo bisogno di riferimento fuori della famiglia. Giudicare è l’ultima cosa da fare. A volte mi chiede perché insegnino certi insegnanti. Per fortuna una minoranza. Ma tutto il sistema italiano dell’istruzione, dall’asilo nido all’università va rovesciato come un guanto, cambiato alla radice. E adeguato non al mercato. Ciò è già stao fatto, con i danni che sappiamo. deguato alla necessità di competenza che la realtà di oggi richiede, in tutti i campi. Il discorso è lungo e complesso. Paolo Fasce parte dalla considerazione giusta. L’analisi e la riflessione vanno continuate.

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