Radioso neanche tanto, quel maggio del 1915: le truppe italiane che varcano i confini con la monarchia austro-ungarica si aspettano di essere accolte dalla popolazione festante. Invece non accade, ed è subito delusione. Quasi immediatamente i servizi d’informazione del Regio esercito si danno da fare per individuare gli «austriacanti» (termine che al tempo veniva usato con aperto disprezzo) da internare lontano dai luoghi d’origine. Capitolo tristissimo, questo, che ha il suo contraltare nei presunti irredentisti internati dall’Austria. Ma accadono anche fatti ben più gravi: fucilazioni sommarie, per esempio, e addirittura un massacro, a Villesse, in provincia di Gorizia. Va subito detto che le violenze ai danni dei civili sono episodiche e saltuarie, non certo sistematiche, com’era accaduto un paio d’anni prima in Libia. Va aggiunto che il riconoscimento del massacro di Villesse viene da fonte al di sopra di ogni sospetto: la Corte dei Conti italiana. Il supremo tribunale contabile nel 1930 sancisce l’insussistenza della accuse a carico dei morti e concede le pensioni alle vedove, queste ultime tutelate da un legale, Rodolfo Caprara, che era stato federale fascista di Gorizia. L’annotazione che viene spontaneo fare è che anche quando i treni arrivavano in orario la giustizia procedeva assai lenta, visto che il suggello del tribunale giunge a quindici anni di distanza dagli avvenimenti.
Quando l’Italia entra in guerra, il 24 maggio 1915, gli austriaci si ritirano su linee più facili da difendere, in sostanza sulle alture, sgomberando le posizioni in pianura che vengono subito occupate dagli italiani. Nei primissimi giorni di guerra il Regio esercito entra a Cervignano, in Friuli, arrivando ai primi rilievi che circondano Gorizia (il monte Calvario, Podgora in sloveno, diventerà tristemente noto), a Cortina d’Ampezzo, a Riva del Garda e Ala, nel Trentino. Gli ufficiali italiani che entrano in territorio nemico si dividono grosso modo in due categorie, gli entusiasti e i sospettosi. I primi, imbevuti di propaganda irredentista, si aspettano di essere accolti con lanci di fiori e ragazze che sventolano fazzoletti entusiaste perché viene finalmente messa fine al secolare giogo asburgico. Quando si rendono conto che nulla di tutto ciò accade, la delusione è cocente. Valga per tutti il caso del generale Antonio Cantore che, occupata Ala, fa internare tutti i componenti della banda cittadina perché non avevano accolto le truppe italiane suonando i loro strumenti. Anzi – sorpresa somma – i nemici vengono presi a fucilate (l’episodio è narrato dallo storico alense Massimiliano Baroni).
I sospettosi invece sono quelli convinti che il territorio occupato sia infestato da tiratori scelti, appostati ovunque e in attesa di sparare sui soldati italiani. La storia dei franchi tiratori era nata nel 1914 in Belgio, dove i tedeschi si erano fatti prendere da una vera e propria paranoia collettiva. Gli ufficiali del Regio esercito pensano che il presunto scenario possa replicarsi in Friuli e in Trentino, tanto che la parola italiana utilizzata per designare i tiratori scelti, ovvero «cecchino», viene coniata proprio sul soprannome con cui gli italiani indicavano l’imperatore d’Austria, ovvero Cecco Beppe. Particolarmente sospettoso è il maggiore Domenico Citarella, al comando del 3° battaglione del 13° fanteria (Brigata Pinerolo) che occupa Villesse il 27 maggio. La cittadina friulana era stata raggiunta già il 25 maggio da una pattuglia di cavalleria che viene accolta da sindaco e segretario comunale stappando una bottiglia di spumante. Tutto tranquillo, e i cavalieri passano oltre. I problemi, davvero seri, sarebbero arrivati un paio di giorni dopo.
Citarella, decritto come un cinquantenne meridionale piuttosto tarchiato, è reduce della guerra di Libia, nonché sicuro che tra nordafricani e friulani le differenze non siano troppe, e che in ogni caso sia meglio non fidarsi. Pure lui viene accolto a casa del segretario comunale, lo lascia però di stucco dicendogli che lo riterrà personalmente responsabile di quanto potrebbe accadere ai suoi soldati. Accanto a Villesse scorre un torrente, il Torre: l’altra sponda è in mano austriaca, ogni tanto qualche pattuglia si spinge al di qua, ogni tanto qualche soldato esplode colpi di fucile. Niente di strano, si direbbe, visto che si è in guerra. Citarella, però, si autoconvince che a sparare siano gli abitanti di Villesse e non le pattuglie di soldati austriaci. Convizione rafforzata dal fatto che gli uomini abili sono – ma guarda un po’ – assenti dal paese in quanto arruolati nell’imperiale e regio esercito (con ogni probabilità mandati a morire in Galizia).
Citarella impone il coprifuoco, ordina che tutte le case rimangano con porte e finestre aperte in modo che i soldati possano sempre rendersi conto di quanto accade all’interno, e ordina pure che nessuno si allontani dal paese. Il 29 maggio accade un fatto per lui inaudito: il torrente Torre si gonfia in una piena. Il maggiore è certo che a provocarla siano stati gli austriaci, aprendo presunte dighe a monte. Naturalmente non è così, ma l’ufficiale teme che si tratti del preludio di un attacco a sopresa. Fa allestire cinque barricate nelle vie del paese utilizzando fascine di legno e mobilio prelevato dalle case, raduna in piazza tutti gli abitanti, qualche fonte sostiene che fossero 149. Divide i civili in cinque gruppi e le mette dietro alle barricate, sorvegliati alle spalle dai soldati italiani con le baionette inastate; una sorta di scudi umani volti a far desistere l’eventuale attacco austriaco. Di notte scoppia un violento temporale e verso mezzanotte si odono i colpi di un’intensa sparatoria. Può essere che qualche austriaco abbia aperto il fuoco e gli italiani abbiano pensato di trovarsi sotto attacco, può essere che il rumore dei tuoni sia stato scambiato per le detonazioni di armi; resta comunque il fatto che tutti i bossoli recuperati sul terreno sono italiani, nella fattispecie fabbricati a Bologna.
Rimangono uccisi cinque civili e un soldato italiano, con ogni probabilità vittima di fuoco amico. E allora ricordiamoli questi poveracci morti innocenti: Giulio Portelli (50 anni), Danilo Montanar (60), Giuseppe Capello (63), Antonio Marega (49); i quattro muoiono subito, mentre la quinta vittima, Francesco Zampar (60), spira il giorno dopo a causa di una ferita alla gola. Si registrano anche alcuni feriti gravi, mentre non si conosce il nome del soldato italiano.
Giulio Portelli è il segretario comunale e contro di lui il maggiore Citarella aveva sviluppato un’autentica ossessione, ritenendolo un austriacante (mentre in realtà pare fosse iscritto al partito liberalnazionale, quindi irredentista). Il giorno dopo, il 30, ne fa fucilare anche il figlio, Severino, accusandolo di spionaggio. Il ragazzo, esentato dalla leva perché applicato nel municipio della vicina Sagrado, aveva in tasca tremila corone austriache e alcuni appunti. Tanto basta per farlo mettere al muro. Un’inchiesta degli anni Venti (quindi italiana) appura che la somma era il ricavato della vendita di due manzi avvenuta pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe italiane – la quasi totalità dei paesani ne era al corrente – e l’annotazione, pure questa precedente l’arrivo degli italiani, riguardava il prelevamento della farina del comune di Sagrado per l’approvvigionamento del reparto bosniaco schierato in zona.
A far desistere Citarella è il comandante di un reparto di bersaglieri. Passato casualmente per Villesse, fa ritornare alle proprie case gli abitanti che il maggiore aveva fatto radunare nella golena del Torre perché i suoi uomini li sorvegliassero. Successivamente Citarella sarà trasferito. Lo ritroviamo nel 1917 sul Piave, con il grado di colonnello e decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Questo è il più grave, ma non l’unico, episodio di violenza da parte delle truppe italiane nel Friuli occupato. Nella vicina Lucinico, paese alle porte di Gorizia, il 3 giugno vengono fucilate senza processo tre persone, Giovanni Vidoz (52 anni), Michele Bressan (73), Francesco Bressan (non se ne conosce l’età). Erano stati accusati di aver sparato sugli italiani, mentre in realtà il fuoco proveniva dagli austriaci appostati sul Calvario.
Il giorno successivo, il 4 giugno, si registra un altro episodio molto grave, non più in Friuli, ma sul Monte Nero, o Krn, dove gli italiani erano stati bloccati dalle difese austriache. John Schindler nel suo “Isonzo” (pubblicato in italiano dalla Leg) scrive che alcune unità italiane sfogano la loro frustrazione sui civili sloveni. I soldati del IV corpo distruggono sei paesi nei pressi del Monte Nero, asserendo che i civili avevano aperto il fuoco contro le unità italiane. Un incidente simile coinvolge il 42° reggimento in fase di avanzata, con l’accusa ai civili sloveni di aver ucciso i feriti italiani. I carabinieri per rappresaglia prelevano 61 uomini dei villaggi, li allineano e fanno fuoco; quelli che sopravvivono, assieme a donne e bambini, vengono radunati e mandati nei campi di internamento italiani.
Certo, poca, pochissima, cosa di fronte alle centinaia di migliaia di morti che sarebbero costate le dodici battaglie dell’Isonzo (la dodicesima noi italiani la conosciamo come Caporetto, oggi Kobarid, in Slovenia). Ma si tratta di episodi significativi di un clima che non era per nulla entusiastico e idillico come la propaganda nazionalista avrebbe con successo tramandato.
(foto di copertina: Soldati italiani saccheggiano case abbandonate nei giorni successivi all’entrata in guerra, la foto è stata probabilmente scattata a Cortina d’Ampezzo.)
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