Il corpo degli altri senza diritto. Come la modernità può essere barbarica

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17 Aprile 2016

Dal 2014 42.500 persone al giorno siano divenute rifugiati, esuli o emigrati forzati. E’ un dato su cui non prestiamo eccessiva attenzione. Fa parte del quadro giornaliero. Ci sono immagini che ci possono più o meno colpire, ma resta il fatto che la nostra quotidianità continua accanto alla pratica delle uccisioni d massa o della violazione sistematica del corpo degli altri.

Per certi aspetti, così è anche per le diverse tappe dei genocidi, stermini, persecuzioni che hanno segnato le varie tappe del Novecento. Un fenomeno che in forma di massa inizia con la prima guerra mondiale, con che poi ha un’accelerazione nel corso della Seconda guerra mondiale, e che poi sotto varie vesti e ha continuato a perpetuarsi fino al nostro oggi.

Di questo panorama la pratica tecnica dello sterminio è solo un aspetto. Giustamente Claudio Vercelli in questo suo libro, concentra la sua attenzione in questo suo libro più che sulla dinamica dell’uccidere, sulla costruzione mentale che legittima l’avvio di quel percorso che ha come presupposto la gestione della vita, e ovviamente, della morte degli altri.

E’ un processo che nel corso del Novecento ha due percorsi che si sviluppano parallelamente.

Il primo ha come fine il controllo della vita degli altri. Suo fine non l’eliminazione fisica, bensì la costruzione di una società gerarchizzata. Le classi d’individui che sono perseguitati, (per etnia, per appartenenza politica, per religione) sono discriminati, internati, sfruttati, utilizzati in funzione della maggiore potenza dello Stato.

Il secondo ha come fine l’eliminazione fisica di chi è ritenuto avversario, nemico irriducibile della società che s’intende difendere o che ci si propone di costruire.

Il secondo percorso include il primo. Il primo non necessariamente sbocca nel secondo. E’ il processo che differenzia le molte forme di pratiche discriminative e persecutorie che hanno popolato il Novecento, la Germania nazista, la Turchia (indifferentemente dal regime politico che l’ha connotato fino al presente, presente incluso) nei confronti degli armeni; l’Unione Sovietica, la Cina comunista, la Cambogia dei Khmer rossi.

Fenomeni in cui la realtà del campo di concentramento, di sterminio, in breve l’istituzione che rende non solo governabile il corpo degli altri, ma soprattutto espropria i prigionieri e gli internati dalla possibilità di disporre dell’uso del proprio corpo. Cosicché la regola maggiore di ogni sistema discriminativo e persecutorio – a prescindere dall’obiettivo dichiarato o nascosto che si propone (se spostamento forzato, reclusione, lavoro obbligatorio, morte, uccisione sistematica) – è lo spossessamento del corpo degli altri.

Dinamiche non meno diverse, volte all’eliminazione fisica che hanno caratterizzato la dissoluzione della realtà dell’ex Jugoslavia o della guerra in Rwanda tra 1993 e 1994.

Al centro di queste dinamiche non sta la discrezionalità della legge, al contrario sta spesso un apparato legislativo che non solo consente o legittima, ma anche contribuisce, nel momento stesso in cui discrimina, perseguita o uccide, a dare nuova forma al concetto di cittadinanza, laddove non includere, discriminare, significa proteggere, e sostenere la propria comunità. Il fine è comunicare ai propri che li si sta “salvando” da una possibile minaccia reale: lo spossessamento della propria società da parte di corpi estranei, comunque minacciosi. Per questa via ciò che si produce è la nascita o la rifondazione di una comunità che ora in forza della paura, riscopre se stessa.

Due sono gli aspetti su cui Vercelli richiama l’attenzione: da una parte la pratica reclusoria del campo; dall’altra la questione della pratica schiavistica.

Primo aspetto: l’equazione campi di concentramento = totalitarismi non esaurisce la questione delle pratiche persecutorie e terminative del Novecento.

Tradizionalmente i campi di concentramento come forma della politica sono stati associati alla nascita e al consolidamento dei grandi sistemi totalitari del Novecento: il nazismo in Germania, l’esperienza del comunismo sovietico. L’immagine di un universo concentrazionario (per riprendere la dizione coniata da David Rousset) come sistema mondo, meglio come metafora rappresentativa ed esaustiva di un sistema di dominio e di organizzazione di vita che fa della macchina ideologica la chiave di volta della scala di valori su cui sistemi sociali complessi hanno dato figura e costrutto alla propria struttura reticolare di potere ha spesso indotto a ritenere che la genesi del campo di concentramento sia un prodotto intrinseco dei sistemi totalitari in quanto tali. Uno dei meriti di Claudio Vercelli consiste, in prima istanza, nello sfatare questo mito consolatorio, per cui sarebbe sufficiente un consolidato sistema formale delle regole democratiche per rendere immune una qualsiasi realtà politica dalla tentazione e dal perseguimento di un progetto concentrazionario.

Nati in forma ancora imprecisa o comunque non diffusamente dispiegata in due esperienze geograficamente lontane dal continente europeo, ma non dimeno segnati dalla forma mentale del concetto di dominio proprio dei regimi coloniali, i campi di concentramento e le politiche discriminative che li legittimano fanno la loro prima apparizione nella storia in Sudafrica e a Cuba promossi dalle politiche di controllo del sistema coloniale britannico, nel primo caso, nei confronti della popolazione boera; e rivolti alla segregazione degli indigeni alle soglie della guerra ispano-americana (1898) da parte del governatorato coniale spagnolo nel secondo caso.

Ancora sono contrassegnati da una forma di reclusione di massa e non volti a un impiego della manodopera segregata. Ma la configurazione che essi assumono già sul finire dell’Ottocento – ossia l’imprigionamento indiscriminato d’individui, d’interi nuclei famigliari, e in ogni caso senza che si ponga l’imperativo morale dell’assistenza ai malati, ai deboli, ai bambini, alle donne, apre evidentemente squarci in quell’autocandidatura alla “civiltà” che la cultura europea accredita a se stessa.

Secondo aspetto: il sistema di prigionia come “taylorismo caricaturale”. E’ un dato che vale sia per il sistema concentrazionario nazista che per quello sovietico del GULag.

L’indagine sull’organizzazione del sistema concentrazionario, sull’arcipelago del gulag intesi come sistemi-mondo fondati sulla costruzione di una società schiavistica in epoca moderna, rapportati al tasso produttivo, meglio alla variabile del successo e alla loro efficacia, porta a concludere che tanto più essi si strutturano e si autonomizzano, tanto più si allontano da qualsiasi obiettivo di efficienza. In altre parole: il sistema del lavoro forzato, del sistema schiavistico proprio dei totalitarismi non produrrebbe ricchezza, ma rinvierebbe solo al segno del dominio.

La struttura di questo cosmo in cui l’idealizzazione del lavoro come categoria “mangiauomini” s’incontra con l’assoluta svalutazione e comunque con la marginalità degli effetti del sistema lavorativo come macchina produttiva, “sistema dell’antieconomia”. Un sistema che schiavizza ma che allo stesso tempo si rivela più miope dello stesso schiavismo antico, perché non correlato a un’idea di aumento della produzione, di successo economico, ma solo teso al conseguimento della consunzione del prigioniero. Una logica, peraltro, fondata su un’assoluta assenza di percezione del mito del lavoro, persino come processo di alienazione materializzabile. Peraltro, determinata solo da un ideale superomistico che non investe in termini di futuro perché contemporaneamente affetto da sprechi burocratici, da distruzione di risorse materiali e da disincentivazione nei confronti della stessa manodopera schiavizzata.

Eppure, nonostante tutto questo, una macchina che genera fascino, come già aveva intuito Franz Kafka nelle prime settimane di quella guerra che doveva risultare poi fondata proprio sulla squalificazione della vita degli altri. A riprendere in mano oggi il racconto Nella colonia penale, scritto nelle prime settimane dell’ottobre 1914, più o meno negli stessi giorni in cui la guerra assume la dinamica definitiva di snervante guerra di posizione dalle parti di Ypres, si resta affascinati dall’intuizione di Kafka sulla macchina come dominus del regime di prigionia. Meno credibile, alla luce dell’intera parabola del Novecento, risulta la conclusione del racconto. Ma non importa. Il cuore del Novecento è già lì: nella macchina come centro del sistema detentivo, e nel funzionario del campo, come amministratore della vita del prigioniero, che non conosce l’accusa né la condanna, perché, spiega l’ufficiale protagonista del racconto di Kafka “la colpevolezza è sempre fuori discussione”.

 

TAG: campo di concentramento, Franz Kafka
CAT: Storia

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