Il franchising multi-lista del sistema elettorale calabro: ecco come funziona

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25 Novembre 2014

Non è un cantone svizzero e nemmeno “la nuova Emilia” del Sud come improvvidamente dice l’ottimo Ilvo Diamanti. La vittoria in Calabria ha un nome: Franchising. Un trucco (ben) collaudato dai siculi sistemi. Il primo ad inventarlo con impareggiabile abilità fu Raffaele Lombardo, via-via mutuato e cavalcato anche da Pd e complici.

Non ci vuol molto a immaginare come il ceto calabro “vincente” con Oliverio abbia fiutato l’andazzo sul crescente astensionismo, dopo una serie di tornate elettorali che vedevano il c.d. Partito Del Non Voto in crescita esponenziale ogni anno che passa. Il problema, però, è che quando ragioni da Napoli in giù non sempre puoi parlare di “pochi ma buoni” o di pochi ma “convinti”.  Al Sud più aumentano gli astenuti, più forti sono le clientele pronte a conquistarsi quei pochi. Clientele che pur si adeguano alla crisi rimodellando le strategie e sfruttando soprattutto i trucchi che la legge elettorale in loco t’offre. Trucchi non nuovi, almeno negli ultimi dieci anni.

Benché molti elettori meridionali provino ancora disperatamente a esibire la propria tessera elettorale dietro la finestra, come fosse la vetrina di una casa di una Red District del Nord Europa, soldi per comprare diffusamente i voti sul territorio non ce ne sono abbastanza o in molti casi non ce ne sono del tutto: e la politica non riesce più a bussare a quelle porte pronte per lo scambio, almeno nell’Ultimo Miglio se proprio-proprio non si vuol tenere conto dei mitici 80 euro spalmati sul territorio nazionale (e manco a tutti). Tuttavia, se la crisi non consente più di comprare il voto diffuso sull’Ultimo Miglio come i bei tempi andati, la nuova frontiera clientelare sembra prendere la forma della campagna acquisti candidati grazie a leggi elettorali ad hoc, imbastite e concepite in questo caso (guarda un po’) da ceti meridionali. Sarebbe bene tenerelo a mente questo caso calabro: non foss’altro per i rischi a cui si va incontro sulle varie riforme elettorali in gioco a livello nazionale.

Detto in modo dozzinale: la legge elettorale calabra, modificata pochi mesi fa dopo i rilievi costituzionali accesi dal governo Renzi, sembra quasi essere una fotocopia di quella in vigore per l’elezione dei comuni in Sicilia con un meccanismo di fatto cliento-proporzionalista e poli-preferenziale seppur con alcuni paletti (8% di sbarramento complessivo per la coalizione, 4% per le liste “appaltate” alla coalizione, 15% per i solitari coalizzati con se stessi e basta). Filosofia che peraltro – fatta la tara dell’elezione diretta del capo di governo – abita anche nei principi ereditati col famoso Consultellum. La calabra legge fresca di stampa, venne approvata dal governo regionale uscente di Scopelliti (lo stesso giorno in cui ci fu la seduta di “commiato” del cestista, appena dimesso per le note vicende giudiziarie), in zona Cesarini per lo scioglimento del consiglio regionale e i cui “benefit” andranno a gran parte degli uscenti che ieri l’hanno votata con l’ex governatore di destra e che oggi vi rientrano transe-unte con il nuovo governatore di sinistra grazie alle liste in Franchising “appaltate” alla coalizione vincente.

Fatta la legge trovato l’inganno con tanto di matita copiativa statale. Ecco il ruolo decisivo di certe liste, che per comodità chiamerei “in Franchising”. Il ceto politico meridionale dell’Ultimo Miglio in realtà non è nuovo a questa tecnica e con questo tipo di leggi elettorali ad hoc: che hanno pure una peculiarità tutta loro. Scheda unica che se non getti la croce sul candidato governatore, sarà il voto della lista “appaltata” alla coalizione a darglielo per automatismo. Dunque, per ipotesi surreale-ma-non-troppo, un candidato governatore può anche vincere le elezioni col 90% dei consensi ma potrebbe per paradosso anche solo ritrovarsi un 10% delle croci sul proprio nome in scheda (un esempio tra tutti il caso clamoroso delle ultime elezioni comunali di Catania dove Bianco vinse con il 63% ma con solo il 15 degli elettori che mise la croce sul suo nome). Non è un caso infatti che – oltre la lista tradizionale di partito come quella del Pd – le liste in Franchising messe in campo a sostegno di Oliverio sono ben 8-dicasi-8 (Scopelliti la volta scorsa ne mise in campo 6). Tutte liste in Franchising che hanno rimesso in campo appunto i transe-unte del potere calabro, “appaltati” ieri con Scopelliti, ora saliti sul carro del vincitore calabro-democratico.

Un olimpionico salto con l’asta da destra a sinistra che hanno portato (e tuttora portano) i cronisti a fare imbarazzanti inventari di magazzino sui c.d. candidati “impresentabili”. Insomma, più sono le liste in Franchising da presentare (con obblighi pure poco onerosi per la raccolta firme di presentazione), più si porterà acqua al mulino democratico. Giammai si pensi, dica e scriva  a monte, come l’acqua portata rischi d’essere inquinata quando il sistema delle liste clientelari in Franchising viene messo in campo per conquistarsi quanti più candidati da ingaggiare con ricevuta di ritorno via scrutinio. Giammai.

Il primo ad usare abilmente questa tecnica, modellando in modo vincente la propria strategia elettorale, fu l’ex Presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo (condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, in “assorbimento” al reato di voto di scambio aggravato a Cosa Nostra). Alle comunali di Catania del 2005, l’ex democristiano Raffaele Lombardo riuscì a far perdere Enzo Bianco grazie a 4 liste in Franchising dell’MPA facendo ri-conquistare per la seconda volta la carica di sindaco al mitico Umberto Scapagnini, medico fidato di Silvio Berluscioni e inventore dell’elisir di lunga vita. Fu un momento anche di massimo “sciàlo” della spesa comunale portando la città di Catania ai tristi record negativi di bilancio che poi indusse perfino a spegnere la luce delle strade in città. “Se ben usate, le possibilità offerte da quel modello di legge elettorale sono formidabili sul territorio – confida con ghigno birbante un ex braccio destro e uomo macchina di Lombardo – oltre a Big e Mister preferenze nelle quattro-cinque liste che piazzi, candidi parenti, amici, pr di discoteca, gente del patronato e chi più ne ha più ne metta: al resto ci pensa lo scrutinio…” Già. Ci pensa lo scrutinio come ricevuta di ritorno, appunto;  e magari ci pensano pure le cambiali che il candidato governatore/sindaco dovrà poi eventualmente assolvere. Vale a dire, per esempio, che potenzialmente ogni candidato “mirror” della lista Francising dovrebbe portare un tot di punti, anche solo 100 o 200 voti a testa. Se li porta potrebbe magari scattare – sempre per esempio – pure il premio di produzione come: una assunzione all’aeroporto, la consulenza in una formidabile “partecipata”, un ingaggio in quello o quell’altro staff, un appalto lubrificato “allo Ziu” per chissà quale fornitura e via andare. Quello del 2005 con l’MPA in franchising per l’esito elettorale e gli equilibri che andava formando sulla scena politica di allora, non solo Sicilia, fu un caso da manuale. Tant’è che pochi giorni dopo il successo di Raffaele Lombardo del 2005, fu lo stesso Massimo D’Alema (uscendo da un seminario dell’Aspen a Monreale) ad additare elegantemente ai cronisti, l’MPA come fenomeno di “clientelismo protettivo”. Ecco il machiavellico Sud come metafora, prequel ieri per la Sicilia, sequel oggi per la Calabria. Benché queste ultime due tornate regionali non si possano leggere “nazionalmente” nei suoi flussi elettorali, c’è un dato su cui sicuramente si può dare un significato non matematico ma in termini generali. La credibilità della politica passa ormai per l’Ultimo Miglio del territorio, a cui Renzi sembra aver però “sbolognato” (con qualche abile furbizia mediatica) ogni rogna economica, fiscale, finanziaria e sociale possibile. Quanto possa durare questo trucco “scaricato” sull’Ultimo Miglio non è difficile immaginarlo.

Se da una parte Renzi ha messo in campo i giusti richiami per gli sperperi regionali, dall’altra non ci sono state finora le giuste misure seppur annunciate dallo scout di Rignano. A cominciare dalla c.d. spesa improduttiva sui grandi numeri che, per le regioni, non sono mica le famose e folkoristiche spese pazze dei gruppi consiliari, mutande e vibratori inclusi. Se è improduttiva sui grandi numeri deve esser pur tale – e quindi – le tanto vituperate aziende partecipate cariche di passività con cifre greche (nascoste a Bruxelles in quanto non contemplate nei conti nazionali) che Renzi annunciò di voler eliminare, non sono state ad oggi eliminate. Davvero qualcuno può pensare che le improduttive partecipate, ultimo rifornimento per le cambuse clientelari in un paese battutto dal Partito Del Non Voto, verranno abolite proprio in questa congiuntura dove ci stanno una decina di regioni al voto?

Il Franchising ringrazia ma non fatelo sapere a Bruxelles: perché in questo caso regionale non è mica di un Cantone Svizzero che stiamo parlando e nemmeno di una Emilia del Sud come ha connotato qualche illustre politologo, porka trojika.

TAG: elezioni regionali, oliverio, Pd, raffaele lombardo
CAT: Enti locali, Partiti e politici

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