Conflitti sociali: dobbiamo imparare dai Francesi?

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3 Giugno 2016

Un tempo molto lontano la sinistra italiana  si interrogava sul quesito se “fare come in Russia”.
Nel 2016 una certa sinistra soprattutto sindacale e indivanata anche essa ormai nell’agora dei social media, si interroga del perché non si fa o non si è fatto “come in Francia”.
L’argomentazione appartiene soprattutto a quei malpancisti che ce l’hanno con la Cgil ( per non dire con Cisl e Uil) aldilà dei propri demeriti oggettivi.
Mi riferisco a quella nutrita frangia di soggetti che vedono da sempre  nel sindacato un bersaglio comodo (più del padrone, più del Governo) cui scaricare  frustrazioni politiche ed esistenziali.
Ma la questione francese, l’opposizione di piazza o di popolo che dir si voglia, contro la Loi Travail qualche interrogativo, oltre i semplicistici raffronti, a chi vuole coglierlo, lo pone.
Marta Fana in un bel pezzo su Il Fatto Quotidiano ci racconta come la riforma del mercato del lavoro francese arrivi buon ultima dopo quelle imposte dalla Europa a Spagna, Portogallo e Italia
e come in fondo sia solo l’ennesima variazione sul tema, divenuto classico, di un neoliberismo acritico che pervade i gagli del potere prima finanziario e poi,di riflesso, politico della UE.
Se le monete non possono più essere svalutate in ottica di competitività ( ce ne è solo una…) a svalutarsi debbono essere il welfare e le tutele di chi lavora, per permettere alle imprese di potersi illudere di recuperare competitività in un mercato globale.

Tutto ciò ovviamente a discapito dei valori fondativi della Unione Europea di spinelliana memoria.
Gli scioperi generali “a nastro” proclamati dal sindacato transalpino fermeranno questa deriva?
Probabilmente no.

Ma il confronto rispetto all’unica giornata di lotta, tra l’altro proclamata dalle sole Cgil e Uil  contro il Jobs Act, seppur improprio, rischia di risultare impietoso, almeno nella vulgata corrente.
Più impietosa però è l’assenza di una strategia sindacale europea di fronte ad una controffensiva di tale portata.
Il dialogo sociale che viene effettuato da anni a Bruxelles fra imprese e unions è divenuto repentinamente un rito burocratizzato e in larga parte improduttivo.
Ancora più sterili sono le reti sindacali fra i diversi stati membri, che non riescono mai ad esprimere conflitto strategicamente organizzato e spesso si limitano a produrre attestati formali di solidarietà, incapaci ad orientare davvero una azione coordinata di opposizione.
Paradossale, in tal senso e a titolo di esempio, come le multinazionali operino le proprie ristrutturazioni ovunque allo stesso modo, e i sindacati si attivino solo quando vengono toccati nel vivo e con reazioni diverse a secondo delle appartenenze nazionali.
Ancor più paradossale appare la disorganizzazione afasica dimostrata di fronte alla più grande controffensiva mossa dai governi di destra come di sinistra del vecchio continente versus  “il Lavoro”  dal dopoguerra ad oggi.
Ritornati rapidamente sul suolo patrio, sul banco degli indiziati troviamo sempre la Cgil che per ragioni storiche viene identificata come il sindacato con la “S”maiuscola.
Lasciando ai leoni da tastiera lo sterile esercizio di indicare quante ore di sciopero si dovrebbero proclamare per evitare la goleada nel derby coi francesi, ritengo più utile affrontare il tema dell’agenda, partendo dal presupposto che in Italia c’è ancora e sempre più bisogno di un sindacato forte, che purtroppo non c’è.
Un sindacato forte e’ un sindacato che ha una visione, una idea di società anche antagonista a quella dominante e che non si schiaccia sul contingente.
La Carta Universale dei diritti che la Cgil sta faticosamente promuovendo con una raccolta firma che avviene a riflettori spenti e nel silenzio schierato dei media, una idea diversa del “mondo come dovrebbe essere” la contiene.
Finalmente si rivolge a tutti i lavoratori senza lasciarne indietro nessuno.

Non si limita a chiedere il ripristino delle tutele contro i licenziamenti facili: propone una riscrittura di tutte le regole del gioco (divenuto durissimo) fra lavoratore e impresa.
Una proposta di legge popolare di questa valenza che si porta dietro importanti referendum abrogativi degli aspetti più cruenti del Jobs Act, rischia però  di rivelarsi un boomerang se, in assenza di sponde politiche, non trova humus fertile nella società.
Ed è questo il primo nodo gordiano da sciogliere: come tornare ad essere percepiti come alleati e non come complici dello stesso sistema di disvalori cui si pretende di opporsi; come riacquistare un ruolo di rappresentanza capace di incrinare le allucinazioni di chi edifica il proprio consenso sulla percezione che dello stesso offrono le diavolerie della modernità (sondaggi e social).
Innanzitutto sarebbe necessario approcciare il tema lavoro come elemento cardine della qualità del vivere delle persone (non “accessorio”o “accidente” come lo vive e lo veicola Renzi) e pertanto unire in una sorta di unica vertenza la battaglia per i diritti, con quelle parallele della cittadinanza, della sicurezza, delle riforme costituzionali,dello sviluppo sostenibile, abbandonando i porti sempre meno sicuri delle “prese d’atto” per avventurarsi in mari di certo più pericolosi e sfidanti che, giocoforza, comportano radicali cambi di prospettiva.
Per ottenere questo obbiettivo bisogna ripensare il rapporto con Cisl e Uil troppo condizionato dalle reciproche fragilità e dalla stagione di ecumenica marginalità cui il Presidente del Consiglio, senza distinzioni, (al contrario di Berlusconi) ha relegato ogni corpo intermedio.

Serve poi riposizionarsi dal punto di vista organizzativo e innovare nella scelta dei gruppi dirigenti, non puntando alla autoconservazione, ma pensando a che sindacato si lascerà al paese domani, e non solo a salvare il salvabile oggi. Oltre la retorica e la moda del giovanilismo debbono esserci merito e progetti. Anche nel sindacato.
In assenza di legami sani e produttivi con la politica e i partiti bisogna cogliere il vuoto di risposte che gli stessi stanno seminando e provare a rispondere al loro posto, lasciando che a un certo punto sia proprio la politica ad essere costretta a cercare un dialogo e non viceversa il sindacato ad implorarlo. Ebbene sì, si deve mirare ad esercitare un ruolo di supplenza attiva che condizioni e incida sulle decisioni prima che le stesse vengano prese nei luoghi del potere.
E infine bisogna evitare a casa nostra, la parcellizzazione del conflitto che tanto danno sta creando in Europa.

Partendo dai contratti nazionali che non si rinnovano ( non solo pubblici)  arrivare rapidamente ad una stagione di unificazione dei conflitti che abbia nella rivendicazione salariale un aspetto di una piattaforma più ampia, veicolo di  ideali, modelli sociali, valori prima che di singole richieste di miglioramento per singoli comparti produttivi: questo potrebbe rappresentare l’orizzonte, forse l’ultimo davvero traguardabile.
Per una ricetta siffatta non sono ingredienti buoni i processi emulatori ma progettualità e la capacità di operare delle scelte; in definitiva basta e avanza il coraggio di mettersi in discussione per poter mettere in discussione il resto. E su questo i Francesi non dovrebbero insegnarci nulla. Nel bene e nel male.

TAG: Lavoro
CAT: Euro e BCE, Sindacati

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