De Angelis (Cobas TIM): “Cessione rete, 20.000 lavoratori a rischio. E non solo”
Intervista a Riccardo De Angelis, lavoratore e delegato sindacale Cobas Tim
Ai primi di novembre il cda di Tim ha dato il via libera, con 11 voti a favore e 3 contro, alla cessione della rete fissa al fondo americano Kkr per 22 miliardi di euro. Smentendo le promesse elettorali – una società delle Tlc a controllo pubblico, sul modello di quanto era stato fatto con Terna nel mercato elettrico – il governo consegna a un fondo d’investimenti americano un asset prezioso in cui il Mef avrà non più del 15%-20% del capitale (ma i soldi necessari non sono ancora stati stanziati) e altri soci pubblici, Cdp e F2i, partecipazioni minori. E fa arrabbiare del socio francese al 23,75%, Vivendi. Abbiamo chiesto a Riccardo De Angelis, lavoratore Tim e delegato sindacale Cobas – Lavoro Privato, qualche chiarimento sull’operazione e un parere sulle sue possibili ricadute sui lavoratori e sugli utenti.
Quali sono i termini dell’accordo per la cessione della rete concretamente?
I termini dell’accordo, al momento, sono che Tim ha accettato l’offerta del fondo Kkr e gli cederà il controllo della rete fissa in società con altre aziende private ed estere – si è parlato del fondo sovrano degli Eau. Non viene costituita una società unica della rete nazionale, come il sottosegretario Butti aveva promesso in campagna elettorale, ma nasce una società privata che gestirà la rete fissa primaria e secondaria.
Possiamo dire che si tratta della parte “a valle” della rete?
Esatto. In sostanza si tratta dei cavi che dalla centrale arrivano al cliente passando per gli armadi che vediamo in strada, mentre non vengono cedute la rete intelligente, le dorsali, insomma l’infrastruttura di rete fondamentale, e soprattutto la rete mobile, incluso il business del 5G, che per una società di Tlc oggi è il futuro.
Qualcuno ha sollevato un tema di carattere geopolitico. In Kkr siede l’ex generale ed ex capo della Cia David Petraeus, ma allo stesso tempo molti apparati utilizzati dalle compagnie di Tlc, Tim inclusa, sono cinesi. C’è il rischio che la rete italiana diventi un campo di battaglia, cioè esiste veramente un rischio in termini geostrategici e militari?
Qui c’è da fare una precisazione. Gli apparati Huawei, che di recente sono stati il bersaglio di norme protezionistiche, sono integrati nella rete radio mobile, non in quella fissa. A Kkr, che, come dicevi, ha al suo interno un ex direttore della Cia, invece viene venduta la parte fissa. Perciò io penso che il vero obiettivo dell’operazione di acquisizione sia economico più che geostrategico o militare. Del resto le comunicazioni sono già abbastanza controllate e per avervi accesso non c’è bisogno di comprarsi la rete. Il vero nocciolo della questione, invece, è che quando tu detieni quella parte di rete che arriva al cliente, sei tu che decidi quale tecnologia gli fornisci e, soprattutto, se gliela fornisci. In un paese come l’Italia, dove la rete non si è sviluppata in modo omogeneo e, diciamo noi, democratico, ci sono intere aree del paese che non hanno accesso ai servizi con la stessa velocità di altre. Come spiegammo ai giornalisti di Presa Diretta nel 2015 il problema della connessione non riguarda semplicemente il paesino di campagna: basta andare nella periferia di Roma, neppure in quella più estrema, per verificare che non hai gli stessi megabit che in centro, perché magari l’ultimo miglio è in rame e l’infrastruttura è soggetta a dispersione.
Ma per quale ragione Tim vuole disfarsi di questo pezzo di servizio?
Tim ha deciso di alienare la parte dell’infrastruttura che non produce più i ricavi desiderati, perché richiede manutenzione e investimenti. È vero che in parte i costi per queste voci nei prossimi anni saranno coperti dal Pnrr, ma il Pnrr prevede vincoli molto rigidi in termini di obiettivi e di tempi. Insomma Tim non può fare come all’epoca degli incentivi di Renzi contro il digital divide, quando, siccome le regole non erano così stringenti, prese i fondi anche senza raggiungere gli obiettivi. D’altra parte, invece, lo sviluppo della rete mobile grazie al 5G garantirà le stesse performance di una rete in fibra ottica, ma con investimenti decisamente minori, perché con una-due antenne copri un intero quartiere senza dover fare buchi e scavi per far passare i fili. Non è un caso che nel ddl concorrenza siano stati abbattuti i vincoli sulle emissioni elettromagnetiche, che in Italia erano i più alti in Europa – e, devo dire, lo rimangono, nonostante la riforma. Chi ha scritto la norma ha detto chiaramente che serve a sviluppare il settore mobile. Una richiesta di tutti gli operatori.
Quali saranno le conseguenze sui lavoratori e sui lavoratori e sugli utenti?
Sui lavoratori la situazione è molto preoccupante per varie ragioni. La prima è che con un mercato che si posiziona sul mobile e sui servizi connessi, 20.000 persone, cioè i dipendenti il cui posto di lavoro è legato alla rete fissa, sono a rischio. I soldi del Pnrr per la rete fissa coprirebbero fino al 2026, ma dopo? A questo si aggiunge che il cablaggio della rete fissa in fibra ottica abbatte il numero dei guasti e quindi anche la manutenzione richiederà meno personale. Quindi 20.000 persone passeranno da Tim a una società di Kkr che acquisirà integralmente Fibercop, la società che già gestisce la rete secondaria in fibra e rame e di cui Kkr è già socia, ma dopo il 2026 per loro il futuro è incerto. A questo si sommano le incertezze che già pesano su Tim Spa, a cui se ne aggiungerà una nuova e cioè che dopo la cessione della rete fissa non potrà più contare sulla sinergia tra fisso e mobile, ad esempio nella formulazione delle offerte. Ma la cosa più grave è che fino a oggi Tim si è avvalsa di una serie di strumenti come i contratti di solidarietà e di espansione, a cui ora non potrà più accedere, perché il governo non li ha rifinanziati. Insomma per affrontare una congiuntura in cui i ricavi da almeno cinque anni calano dovremo ricorrere agli ordinari ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione. Per intenderci: Vodafone, 4.000 dipendenti, si prepara addirittura ad abbandonare il mercato delle Tlc. È vero che Tim ha registrato una diminuzione dei ricavi più ridotta, ma il rischio resta serio.
Veniamo ai consumatori…
I consumatori in un primo momento assisteranno a un ulteriore inasprimento della competizione, con la possibilità di trarne qualche piccolo beneficio, ma è una situazione destinata a esaurirsi rapidamente. Lo sviluppo della rete e l’accesso in tutto il paese non ci saranno, perché saremo legati alle scelte di un privato che continuerà, a maggior ragione, a non investire sulle cosiddette aree bianche o grigie, quelle non appetibili in termini di mercato. L’altro aspetto, legato ai costi, è che gli operatori, proprio perché i profitti si riducono, hanno intenzione di andare verso un consolidamento del mercato, cioè verso processi di concentrazione del capitale. Vodafone, come ti dicevo, potrebbe uscire dal mercato cedendo il segmento aziendale o a Fastweb o a Tim e il consumer a Iliad.
Che cosa proponete come sindacato?
Non è la prima volta che si presenta questa situazione. E già le altre volte come Cobas abbiamo detto chiaramente che prima di smembrare un’azienda che potrebbe essere utile al paese bisognerebbe provare ad aumentare la partecipazione di Cdp e sviluppare la rete avendo come obiettivo la pubblica utilità e non solo il mercato. La Confederazione Italiana per l’Agricoltura, ad esempio, ci spiegava che se i suoi affiliati potessero accedere a una connessione veloce potrebbero aumentare il loro contributo al Pil a 2 miliardi, poi c’è tutto il tema della scuola digitale. Sviluppare la rete significa portare la connessione in aree con ricavi ridotti, ma anche avere la possibilità di aumentare i volumi. E farlo con una società a controllo pubblico significherebbe agire senza essere schiavo del debito come capita a una ordinaria società quotata. Tim, nonostante i ricavi calino e abbia un debito di 20 miliardi, ha 11-12 miliardi di entrate annue, quindi il debito è abbastanza sostenibile. Il problema è che oggi, con questi assetti societari, è soggetta a valutazioni finanziarie che spesso prescindono dall’andamento di mercato.
Stiamo parlando di operazioni con grandi player internazionali, fondi speculativi, fondi sovrani e soci stranieri come Vivendi. Un sindacato può affrontarle a livello nazionale o avete cercato di instaurare rapporti coi sindacati di altri grandi paesi europei?
Abbiamo creato qualche relazione quando l’azionista era la spagnola Telefonica. Da quando invece l’azionista di maggioranza è francese non siamo riusciti a fare altrettanto. Il problema è anche che è difficile ragionare in termini internazionali, perché il mercato non è così omogeneo. Quasi tutti i paesi europei, a differenza dell’Italia, hanno mantenuto un controllo o normativo o di capitale o entrambi sugli ex monopolisti, vale per Orange, Deutsche Telekom e così via e grazie al controllo pubblico hanno sviluppato la propria rete fissa. Quindi i sindacati di altri paesi in qualche misura hanno meno bisogno di noi di intrattenere relazioni internazionali.
Non hai l’impressione che se ne parli un po’ poco? E, se sì, secondo te è una scelta intenzionale fatta per tenere all’oscuro l’opinione pubblica o negli addetti ai lavori c’è anche una scarsa comprensione di quanto pesino queste scelte?
Se me lo avessi chiesto qualche anno fa, avrei detto, da militante, che è una manfrina tra sodali del capitale per tenere all’oscuro l’opinione pubblica. Ma in questi anni ho scoperto che pesa anche una scarsa conoscenza e consapevolezza, anche tra gli addetti ai lavori. Io ho avuto rapporti con parlamentari e ho incontrato membri della commissione parlamentare competente e posso dirti che c’è poca conoscenza dell’argomento. Ci sono movimenti e organizzazioni politiche a cui abbiamo dovuto spiegare come funziona la rete. Nel 2012 l’allora amministratore Bernabé fece un’audizione in commissione parlamentare. Noi eravamo entrati in contatto con alcuni membri della commissione e avevamo spiegato loro alcune cose e Bernabé, sentiti i loro interventi, se ne accorse e glielo fece anche notare. Disse: “Finalmente qualcuno vi ha dato l’imbeccata”. Ma anche molti giornalisti specializzati scrivono grosse amenità e persino nel sindacato riscontriamo lo stesso problema. Oggi in azienda siamo tutti allineati, anche coi sindacati confederali, e questo ci fa piacere, ma quando le cose si sono messe in moto siamo stati i primi a intuire cosa stesse succedendo e trasmettere questa consapevolezza, ti dico la verità, non è stato facile.
Intervista tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 12 dicembre.
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