I moralisti e la “cultura della vergogna” in un Paese che l’ha persa

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30 Novembre 2015

In un aforisma di Umano troppo umano,  Nietzsche scrive di Schopenhauer che  «sotto il manto di leopardo della sua metafisica,  c’è un vero genio moralista». Cosa vuol dire Nietzsche con quel moralista? Che Schopenhauer è un bacchettone, uno che fa la morale? No, semplicemente vuol dire che  Schopenhauer è un moraliste alla francese, come moralistes erano gli autori di riferimento francesi di questo Nietzsche  di Umano troppo umano che abbiamo tra le mani, ossia La Rochefoucauld, La Bruyère, Chamfort, Vauvenargues. I Moralistes francesi sono  quegli autori del Grand Siècle che  più e meglio hanno scritto sul cuore umano prima dell’avvento della psicoanalisi. Il loro era uno studio, rimasto con grande risalto nella tradizione francese,  sulle passioni e sui costumi  degli uomini (études de passions et de mœurs, dove questi  mœurs mostrano la chiara origine latina: mos-moris). Non solo i costumi in senso lato, ma le maniere, le inclinazioni e i comportamenti  individuali e collettivi sono al centro dell’attenzione dei moralistes.

Nelle  Illusioni perdute Balzac farà derivare il romanzo moderno dalla grande tradizione “moraliste”. Scriverà: «Il romanzo abbraccia il fatto e l’idea con invenzioni che esigono lo spirito di La Bruyère e la sua morale incisiva». Perché questo  farà Balzac nella Parigi dell’incipiente capitalismo, ove l’interesse e la rapacità degli individui, paragonati a “Lupi cervieri”,  si nascondeva dietro ogni angolo: condurre a termine il lavoro di scavo e di disvelamento delle passioni e dei costumi degli uomini iniziato dai “moralistes” classici del Grande Secolo, e coniugare questo lavoro di estrema raffinatezza intellettuale coi mezzi dozzinali e popolari offerti dal genere romanzo.  Da qui l’andamento della sua prosa deliziosa che alterna una massima alla La Rochefoucauld  alla descrizione di un personaggio popolare come Vautrin.

Ora, questo termine di “moraliste” in Italia è praticamente intraducibile in maniera appropriata, perché nella nostra lingua il termine  “moralista” indica una persona che fa la morale, uno che  si erge a una superiore moralità in un Paese che vive così tanto nel brago morale che con l’espressione “Non fare il moralista” intende semplicemente “abbassare” chi osa distaccarsi da comportamenti ritenuti ampiamente condivisi. Se così fan tutti, lui, chi si crede di essere?! Il termine sprezzante di “moralista” in Italia è perciò una chiamata di correità permanente, è un dire: “Siamo tutti complici, tutti colpevoli, il più pulito c’ha la rogna”… dunque “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Ecco perché il termine “genio moralista” che Nietzsche dà a Schopenhauer chiederebbe quanto meno una nota a piè di pagina per il lettore italiano.

C’è da aggiungere che nel nostro Paese, indipendentemente dal proprio grado di colpevolezza (da tutti ritenuta certa perché altrimenti non avrebbe libero sfogo la propria sfrontatezza) passa per moralista già chi solo non è cinico come tutti gli altri. Basta non essere cinico che sei già ritenuto un “moralista” anche stando zitto. C’è un’accusa implicita di moralismo gettata  non solo verso chi osa esprimersi e  biasimare comportamenti cinici, per tacitarlo, ma già verso chi non li mette neanche in atto: è un’accusa preventiva, giacché il cinico ha bisogno di un’area di rispetto attorno alle proprie azioni tale che neanche una smorfia di dissenso lo colga.

Tutto ciò è possibile in Italia perché, se mai c’è stata, sicuramente oggi non c’è o non è ampiamente condivisa la “cultura della vergogna”. Questa locuzione venne impiantata nel linguaggio parascientifico dall’antropologa  Ruth Benedict nel suo Il crisantemo e la spada  (1946)  e successivamente adottata da un grecista di fama come Eric  R. Dodds nel suo famoso saggio I greci e l’irrazionale (1951). Dodds individuò una shame-culture (cultura della vergogna) presso gli antichi greci e nel mondo omerico specialmente, cogliendola nel termine greco di aidós

Nella prospettiva greca del primo arcaismo l’idea più vicina a quella di “pudore” viene espressa attraverso il campo semantico della parola aidós (αἰδώς, traduzione provvisoria: “vergogna”, “ritegno”) che descrive l’atteggiamento che si sviluppa in un soggetto nel momento in cui egli si rende conto che un proprio comportamento sarà oggetto di biasimo. Dico atteggiamento, e non emozione, a ragion veduta. Aidós infatti non identifica un dato esclusivamente psicologico; è anzi una parola sfuggente, dai contorni sfrangiati, in parte anche intraducibile, che si trova applicata a un ventaglio di situazioni tanto vaste da far dedurre che la sua rilevanza nel sistema di valori della grecità arcaica fosse enormemente più ampia rispetto a ciò che potrebbe essere, ad esempio, il pudor latino o ancora di più il concetto moderno di pudore, ad esempio quello espresso dall’inglese shame.

Secondo la nostra accezione, la vergogna appartiene a un nucleo ristretto di emozioni fondamentali che a tutta prima si direbbero involontarie, incontrollabili, interiori; non è nel potere di una persona impedire che insorga la vergogna, come non è in suo potere impedire che insorgano la rabbia o la paura. Queste emozioni si possono forse gestire, ma non si può evitare che si sviluppino istantaneamente e quasi automaticamente, accompagnate da un senso di disagio o sofferenza. (V.  G.Guidorizzi, G.Conti, in Omero e la cultura del prepudore in “Spazio filosofico” N.5, 2012).

Alain Finkielkraut nel suo L’identità infelice (L’identité malheurese, 2013, uno studio sulla società francese di oggi) spiegherà inoltre: « L’uomo essendo per natura, ai loro occhi, un animale politico, i Greci non avevano alcun bisogno per pensare la società, dell’idea di contratto sociale. Ma,  sotto il nome di aidós , mettevano il timore della perdita della  stima di se stessi a fondamento di ciò che noi chiamiamo oggi vivere assieme. L’ aidós è la riserva, la modestia, il pudore che nascono, in noi, dall’interiorizzazione dello sguardo degli altri».

Ora,  è chiaro che  se il timore del ritiro della stima verso di noi  è rotto in tutto il corpo sociale, se dai vertici della società questo timore non si ripercuote verso il basso, o se esso non promana dal basso verso l’alto nell’esprimere i propri vertici, ogni vincolo sociale è sciolto e non potranno esserci norme bastevoli né tutori dell’ordine.  Senza vergogna, le nonne balleranno discinte nei programmi televisivi di intrattenimento, i giudici si venderanno le sentenze o si alterneranno nella Consulta nel ruolo di presidente qualche mese prima di andare in pensione per lucrare sul rateo, i ladri ruberanno sicuri dell’assoluzione perpetua della giustizia e della maggioranza dei cittadini, gli scolari copieranno i compiti, ma anche gli studiosi preleveranno da altri libri passi interi senza virgolette per immetterli nei propri lavori,  i monsignori faranno e riceveranno telefonate osées e gli abati si abbandoneranno alle droghe e ai festini più sfrenati…

Mi abbandono forse al “moralismo” (in senso italiano)  più sfrenato anch’io quando aggiungo  che se in una società non è cogente il metus, il timore della vergogna,  tutto è possibile più che per la morte di Dio?

 

 

 

 

TAG: Alain Finkielkraut, cultura della vergogna, Eric Dodds, Omero, Ruth Benedict, vergogna
CAT: Filosofia

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