Per capire (e battere) Salvini studiate George Wallace e cercate Lyndon Johnson

1 Luglio 2018

A chi volesse comprendere qualcosa in più del presente e dell’ascesa del piccolo Orban in felpa che sovraintende alla nostra sicurezza nei ritagli di tempo di un’infinita campagna elettorale, consiglio di sollevare lo sguardo dal trito paragone con il Fascismo e andare più avanti di quarant’anni e molto più a Ovest, fino a Tuscaloosa, Alabama, davanti ad una foto in bianco e nero.

La fotografia scattata l’11 giugno del 1963 vede un piccolo uomo, ex peso gallo di pugilato, ritto davanti alla porta dell’Università dell’Alabama per impedire l’ingresso a due studenti afroamericani, i primi ad essere stati ammessi dopo la desegregazione delle scuole decisa dalla Corte Suprema ben 9 anni prima.

Wallace, che era appena diventato Governatore dell’Alabama pronunciando il famoso “segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre”, guarda spavaldo il Viceprocuratore degli Stati Uniti, pronuncia un discorso iperfederalista sui diritti degli Stati contro l’oppressione del Governo federale e poi si sposta per fare passare i due studenti, che non avrebbe in alcun modo potuto veramente fermare.

Lo stand at the schoolhouse door è il paradigma perfetto delle rodomontate del più famoso dei southern demagogues, quei politici del Sud degli Stati Uniti che univano aperto razzismo, convinto populismo, e oratoria fiammeggiante e che sono i veri padri politici di Salvini e di tutta la sua schiatta di imprenditori della paura.

Come per la chiusura dei porti del nostro buon Ministro dell’Interno, lo stand fu per Wallace uno straordinario trampolino per la carriera politica, che culminò nella corsa alle primarie democratiche del 1964 e soprattutto nella corsa da indipendente alle presidenziali del 1968. Nel 1968 Wallace fu un vero fenomeno politico e probabilmente avrebbe preso più del comunque ragguardevole 13,5% dei voti popolari se non avesse scelto come vice un Generale dell’Aviazione americana a cui Kubrick si sarebbe ispirato per il mad bomber de “Il Dottor Stranamore” e che fece naufragare la campagna dichiarando in conferenza stampa che nell’atollo di Bikini dopo i test nucleari i topi erano più grassi e in salute che mai (strano ma vero, i populisti attirano sempre i dementi).

La desegregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti era fino agli anni ’60 quello che è per noi l’immigrazione oggi. Visto con l’occhio di Dio e dei liberal americani era un fenomeno storico, doveroso e soprattutto ineluttabile, per i leghisti di allora, elettori di Wallace e simpatizzanti del KKK, era un tentativo di soffocare la libertà degli Stati di fronte allo strapotere del Governo federale e delle élite (c’erano anche allora).

Alla fine quello che era storicamente ineluttabile si realizzò e il proto Salvini perse non solo le elezioni ma anche la sua base elettorale che si sfarinò mentre gli Stati del Sud cambiarono pelle grazie alle riforme che fecero degli afroamericani una base elettorale imprescindibile (alla quale a fine carriera si rivolgerà lo stesso Wallace) e all’aria condizionata che portò nuovi abitanti e cambiò l’economia e la società. Wallace e i suoi accoliti (alcuni dei quali con gli stessi occhi cerulei e l’espressione fanatica del Ministro Fontana) persero però anche politicamente, a dimostrazione che il populismo ha le gambe corte e, se si sa trattare, cortissime.

Il più grande nemico politico di Wallace e dei proto Salvini non fu il patrizio Kennedy, morto troppo presto, ma il suo vice e poi successore Lyndon Johnson.

Kennedy aveva scelto Johnson, senatore texano di lunghissimo corso, come vice per tenere buono il Sud. Johnson andò molto oltre questo ruolo e prima e soprattutto dopo la morte di Kennedy firmò provvedimenti storici e controversi che cambieranno per sempre i diritti civili e i diritti sociali negli Stati Uniti e ne faranno, almeno nella politica interna, uno dei migliori Presidenti della storia americana.

A me Johnson ha sempre ricordato Giolitti.

Come il “ministro della malavita”, Johnson fu molto odiato dai radicali (e certamente a ragione per il disastro in Vietnam che ne stroncò la carriera), al punto da non vedersi riconosciuto il ruolo chiave di leader politico modernizzatore e di padre del riformismo poco glamour e tutta concretezza. Per ambedue la politica era “sangue e merda”, roba per stomaci forti, ma anche strumento fondamentale per accompagnare e accelerare i cambiamenti della società in senso progressista.

Mentre Giolitti fu più calcolatore nelle sostanziali riforme che cambiarono molto della società e della politica italiana (fino a essere travolto dal Fascismo che non riuscì a ingabbiare), per Johnson la componente ideale fu più forte. La politica, anche quella alla House of Cards, e le riforme furono lo strumento per realizzare un disegno populista buono: fare uscire America nera e America bianca povera e rurale dalla miseria civile ed economica offrendo diritti e tutele e cercando di superare una dicotomia montata ad arte dai populisti, che uscirono sconfitti.

Il disastro politico e sociale che fu il 1968 in America e la fine ingloriosa di Johnson non fanno venir meno il senso per il disastrato presente di questo lungo (ma spero non noioso) excursus storico: il populismo si batte un po’ soffocandolo nel suo ridicolo e molto facendo politica, ossia risolvendo i problemi delle persone e accompagnando i cambiamenti perché facciano meno paura anche a chi ha meno strumenti per leggerli.

Smontare la paura vuol dire togliere carburante ai Salvini di turno, che sulle ansie e la rabbia prosperano e per questo al di là delle fanfaronate non hanno alcun interesse ad aumentare la felicità e il benessere.

Smontare la paura oggi in Italia attorno ad un fenomeno ineluttabile ma tragicamente controverso come l’immigrazione, che permette al demagogo Salvini di prosperare oltre i suoi meriti, richiede una leadership e una credibilità politica molto più affini a quelle dell’odiato Johnson che a quelle (inesistenti) del reggente trasparente Martina.

Mai come in questa fase è evidente che avere moralmente e razionalmente ragione in democrazia serve a pochissimo se non si parla alla testa e alla pancia degli elettori e la politica è esattamente l’arte di fare questo con la retorica, i simboli e le idee. Sono gli stessi elementi che utilizzò Johnson nella sua “Guerra alla Povertà” che unì bianchi poveri e neri in una grande visione di civiltà, resa possibile anche dal suo essere stato un maestro nel Texas rurale più povero (dove tornò per firmare una legge sull’educazione primaria universale).

Senza attenzione per le condizioni dei più poveri tra i bianchi, i diritti civili per i neri sarebbero stati un processo ineluttabile ma ancora più lungo e controverso. Similmente, per venire a noi, senza un programma organico di crescita per il Paese che parta dal disinnesco dell’ansia sociale gli imprenditori della paura continueranno a prosperare.

Come si disinnesca l’ansia sociale? Bel tema, certamente troppo complesso per un’articolessa estiva e soprattutto per le competenze del suo autore, comunque sufficientemente presuntuoso per tentare di abbozzarne alcuni punti.

1.     Aver ragione moralmente sull’immigrazione non basta. Le statistiche sulla percentuale (ridicola) di immigrati nel nostro Paese rispetto al Nord Europa non spostano mezzo voto e possono molto meno delle fake news e delle immagini dei richiedenti asilo sparsi nelle piazze dei piccoli centri italiani. Soprattutto, se una cosa non indecente ha fatto Salvini è stato mostrare il visegradismo presente in tutti i Paesi europei. Il cerino dell’immigrazione dal Sud del mondo non si spegne con le foto degli occhioni dei bimbi africani. È una bomba politica per tutte le democrazie e le persone per bene devono saperlo e organizzarsi di conseguenza, dosando il gas dell’apertura e massimizzando l’attenzione all’integrazione, anche attraverso un controllo ferreo al tema negletto della sicurezza. L’alternativa a questo oggi non è Gino Strada, ma Casa Pound.

2.     A pancia piena si è tutti più buoni. Il combinato disposto della crisi economica e di una formidabile campagna mediatica ha contribuito a creare una narrazione del declino così solida da ottundere la razionalità. Non mi riferisco solo al ciarpame dei social network, delle TV del pomeriggio, di Libero (dalla decenza) o di qualche testata che si reinventa salviniana per campare, ma anche alla cosiddetta stampa borghese, Corriere in primis, che in odio a Renzi ha pavimentato la strada a Salvini. È necessario che i buoni facciano lavorare il cervellino per immaginarsi una nuova narrazione della crescita, fatta di tecnologia, impresa e lavoro e magari di un po’ di animal spirit liberati e che utilizzi modalità di comunicazione nuove e se possibile meno corrotte. Certamente non è cosa facile ma almeno qui abbiamo un vantaggio: Salvini, come il clown di IT si nutre di paure e sfighe e se si racconta in modo credibile dello sviluppo e del lavoro che l’Italia già esprime e ancor più potrebbe esprimere, non sa che dire. La prosperità è la kriptonite dei populisti.

3.     Il Villaggio Globale deve stare un po’ in soffitta. Dagli anni ’90 la modernità delle leadership progressiste e democratiche si è incarnata quasi sempre in diverse versioni del governo dei processi di globalizzazione, considerati tanto ineluttabili quanto positivi. Oggi questa idea è in crisi come le stesse leadership progressiste e democratiche. L’alternativa a Visegrad non è e non può essere il modello Google, il passato di verdure apolide senza cultura e senza identità. Serve una versione democratica dell’interesse nazionale da spendersi in Europa e dell’interesse locale da spendersi in Italia, una generazione Erasmus che torna a Matera e lavora per fare crescere il proprio territorio e la propria cultura come provincia non provinciale, società aperte ma con un senso d’identità e di interesse, senza i quali vincono le felpe Made in China di Salvini.

4.     Identità nuove per leader nuovi. Ingloriosamente tramontato un promettente Giolitti come Matteo Renzi, oggi la questione della leadership del campo progressista si pone come un tema tanto fondamentale quanto lungi dal risolversi. Personalmente considero i due candidati più accreditati, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti, profondamente inadatti per standing personale, capacità di leadership, curriculum e soprattutto visione del futuro, accomunati come sono da una non sopita nostalgia dei DS e delle tavolate dell’Ulivo. Ottime persone, per la carità, ma polli di batteria del PCI-PDS-DS e convinti che il richiamo alla sinistra valga elettoralmente e politicamente qualcosa in questo Paese e da lungi non è più così. Nuovi leader potranno uscire solo dalla frontiera del lavoro e della produzione e dal governo dei territori e speriamo non si perda troppo tempo dietro a questioni, nomi e sigle di nessuna rilevanza.

Se ci si mette a lavorare sono convinto che la minaccia di Salvini di governare quasi quanto Francisco Franco potrà almeno essere decisamente contrastata e speriamo che il ridicolo faccia la sua parte.

A proposito di ridicolo non ho parlato di Di Maio, semplicemente perché non c’è nulla da dire, a parte rimarcare la pervicacia con cui il Nostro dice quello che l’interlocutore vuole sentirsi dire. A tale proposito si vocifera che dietro la sua scrivania di Ministro dello Sviluppo economico sia appeso un poster che recita a caratteri cubitali questa massima di Marx (Groucho): “Questi sono i miei principi, e se non ti piacciono… beh, ne ho altri.”

TAG: "politica", immigrazione, matteo salvini
CAT: Governo, Intelligence

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