Mentire alla grande: Ermanno Cavazzoni ci parla del suo libro

13 Marzo 2023

Parlare de Il gran bugiardo di Ermanno Cavazzoni, uscito per La Nave di Teseo a febbraio scorso, significa perdersi nel labirinto del “comico” in letteratura, per di più associando al comico un tema filosofico-morale gravoso come quello della menzogna. Paradosso vuole che del comico si debba parlare con serietà o il discorso si disperde, diventa inutile, si falsifica, parafrasando Luigi Malerba, maestro e teorico del genere. Sulla menzogna non si potrebbe poi aggiungere nulla di più alto e allo stesso tempo più ardito rispetto a quanto hanno inviato i classici da Aristotele a Platone, e da ultimi Baudelaire e Jankélévitch, a noi posteri irrisolti.

Il comico è falsificazione del reale (L. Malerba in Strategie del comico, Quodlibet 2018); non è mai realistico, interrompe la realtà intesa come abitudinarietà interpretativa. Dovremmo quindi fare un discorso serio attorno a un romanzo comico che segue con indulgenza e leggerezza le peripezie di un bugiardo spettacolare, che fa dell’invenzione di sé una condotta naturale dentro storie sempre più al limite ma capaci di restare vere, appese al “possibile”. Siamo nell’anno 2001, mese di settembre, settimana in cui l’impossibile e il possibile coincidono nel giorno 11.

Leggendo il libro ho riso molto, ringraziando mentalmente l’autore. Ero su un regionale che mi portava da Pisa a Grosseto, davanti a un cinese enorme che mi fissava inespressivo; mi uscivano risate a scoppio, alzavo lo sguardo dal libro e lui mi fissava immobile, solo ansimando un po’. Ho cercato di astrarmi ma non ci riuscivo, e nemmeno riuscivo a non leggere e non ridere. Allora ho ricordato di avere il numero di Ermanno Cavazzoni e così per distrarmi gli ho scritto quello che stavo facendo. Dalla sua risposta ho capito che avrebbe accettato di fare due chiacchiere su questa sua opera dal titolo anche meno comico degli altri, sollevandomi così dall’impaccio di doverne spiegare la peculiare comicità.

Ecco quello che ci siamo detti.

Ermanno Cavazzoni

D: Ermanno, il protagonista di questo libro (Nic), il gran bugiardo del titolo, è un uomo giovane, che può convincersi (e convincere) di diverse identità, dallo scrittore al direttore d’orchestra passando per un medico fresco di laurea e poi un barbone. Osserviamo che il narratore (che ogni tanto compare in prima persona) ha una certa indulgenza nei suoi confronti così come l’autore che ha dietro e che si limita a raccontarci le identità false di Nic, trascurando però quella vera, che forse non c’è. Insomma, perché l’aggettivo “gran” che in fondo sembra esaltare? E poi, perché non sei riuscito a infierire sul protagonista ma quasi lo hai preservato da veri disastri?

E.C: Sì in questo caso si tratta di un gran bugiardo proprio perché non si limita a dire piccole balle o frottole di circostanza, ma proprio s’inventa un nuovo Io e nemmeno del tutto consapevolmente prende identità diverse in base a chi incontra. Come narratore mi accorgo che mi esce un Io improvviso che scrive certe cose che a volte tolgo ma altre volte – dato che le cose che escono senza intenzione talvolta sono anche giuste – le tengo. Poi trovo interessantissimi i bugiardi, i grandi bugiardi e forse un po’ indulgo per questo verso Nic. Pur correggendo molto, concedo anche tanto a quelle sbandate che si possono verificare sulla strada del processo creativo. Resta anche da dire che questo bugiardo in fondo fa anche un po’ tenerezza, soffre, è debole, in tanti momenti angosciato, come molti bugiardi.

(Ridendo) D: Scusami, mi viene da ridere per come mi parli di questo Nic, come se la tua comicità avesse la stessa voce scritta e parlata… Ecco, questo Nic in fondo non fa altro che vivere da gran bugiardo si potrebbe dire in un “mondo bugiardo” il quale in parte finisce per mentire assieme a lui e assecondarne le sorti. Non c’è premeditazione in Nic, c’è come un daimon che lo fa scivolare nella bugia, che si fa sempre più grossa, immensa, ingovernabile; non c’è nemmeno malvagità nel protagonista: come finto medico guarisce e aiuta degli anziani, da corteggiatore si muove dolcemente verso le donne, poi cerca anche di curarsi. Questo Nic pare un uomo come tanti, vittima di sé stesso e di una natura bugiarda congenita. O no?

E.C: Credo sia così. Questo personaggio è di sicuro ispirato a storie vere che ho potuto osservare spesso da vicino, di persone che credono proprio di essere altri da sé e che riescono a convincere di questo loro delirio. Nic è una di queste, solo a un certo momento vorrebbe trattenersi ma non ci riesce. Io penso che siamo sempre tutti immersi nelle bugie più o meno grandi, bugiardi circondati da bugiardi talvolta anche molto interessanti, come Nic… Io stesso credo di essere un gran bugiardo in quanto artista che entra in una parte che non sa se riuscirà a soddisfare. Inizio a scrivere ad esempio una storia ma non è detto che riesca a mantenere quella certa promessa. Tutte le opere artistiche potrebbero essere intese in questo senso come “piccole” truffe. Anche Vinicio Capossela mi ha scritto è di questo avviso.

D: Lasciami citare il filosofo francese Jankélévitch col suo saggio sulla menzogna, dove l’autore indaga la verità partitiva e la menzogna veridica con gli strumenti a loro volta ingannevoli della lingua: noi allora possiamo dire che la verità e la bugia sono sempre approssimazioni di sé stesse l’una necessariamente in relazione con l’altra? Sono concetti indistinguibili e la lingua, la parola sono proprio lì a creare questa loro fusione e confusione?

E.C: Diciamo che c’è proprio continuità tra le due. Ad esempio, nella stessa frase detta a una persona o all’altra ci sono piccoli margini di bugia, è ovvio. Riportiamo lo stesso fenomeno in modo differente se parliamo a nostra sorella o alla nostra fidanzata ad esempio; il grado di sincerità varia in base all’interlocutore. Siamo immersi nella bugia continua, nella verità solo momentanea, non si può dire il contrario. Ci dobbiamo necessariamente adattare agli altri attraverso maschere, credo che diversamente sarebbe il caos.

Qui mi viene in mente l’aforisma di Baudelaire “Il mondo va avanti solo grazie al malinteso”.

In tal senso questo libro è anche un grande esempio di onestà intellettuale.

D: Una recensione del libro cita in relazione a Nic il famoso Uno, nessuno e centomila di Pirandello, riferendosi credo a quanto dicevi poco fa dell’impossibilità di stabilire un Io unitario…

E.C: Sì, certo, recitiamo di continuo delle parti di noi, abbiamo un Io che varia in base alle situazioni, siamo travolti spesso – come il mio personaggio – da un impulso vitale e inevitabile alla menzogna. E non c’è un Io solo, non esiste il sé stesso, o per lo meno non è afferrabile.

D: C’è un’aria da commedia all’italiana nel libro; il protagonista s’imbatte in momenti tragicomici che attraversano anche situazioni angosciose, drammatiche, dove aleggia anche un’amarezza di fondo con riferimenti sociali non primariamente comici: la solitudine, il disturbo psicologico-psichiatrico, la fragilità. Nonostante tutto però si ride.

E.C: Sì è proprio così, ho raccontato una storia che si può accostare alla commedia all’italiana perché tutto ciò che accade fa ridere ma di un riso sempre un po’ implicato con il disagio o un’angosciosa attesa di disastro, come d’altronde mi sembra siano la vita, il mondo, almeno per me, tendenzialmente comici e allo stesso tempo angosciosi.

D: Produci umorismo anche sentendoti parlare al telefono… è proprio intrinseco alla tua persona.

E.C: Umorismo non direi, perché non mi sento così freddo né così sottile… l’umorismo si muove in punta di forchetta, io cerco piuttosto di raccontare con una natura senz’altro comica spargendo questa essenza su tutto come una polverina leggera.

D: Cosa si prova durante la scrittura di una storia come questa? Riesci a divertirti?

E.C: Ogni volta che si riesce a scrivere si prova una gran contentezza, che però è mista a dolore e frustrazione perché tante volte si avverte che non esce fuori tutto, resta spesso l’idea di aver tenuto indietro qualcosa.

D: Mi sono chiesto durante la lettura – che mi ha fatto oltre che ridere pensare tanto  – se non ci sia la complicità degli altri sempre nella nostra propensione a mentire. Come dire, c’è anche la complicità dei coprotagonisti della storia, specie le due donne, che finiscono per credere a tutto. Chi sospetta di Nic non interviene mai, come trattenuto dalla forza misteriosa delle bugie. No?

E.C: Beh tutti tendono a vedere nell’altro qualcosa della loro immaginazione, ciò che vorrebbero credere, questo è vero. Quei rapporti “leggermente amorosi” che racconto nel libro in effetti inducono le donne, ma è lo stesso anche per gli uomini, a uno stato di sfrenata fiducia nell’altro. Fa parte dei normali rapporti sociali direi… Tutto è comunque sempre falso, compresa l’immagine che ci facciamo dell’altro, e lui di noi.

D: Alla comparsa del Dott. Acerbi, lo psichiatra, ho per pensato che la storia potesse prendere una piega clinica, psichiatrica, come accadeva nei romanzi – in fondo comici anche loro – di Ottiero Ottieri. Invece tutto prosegue seguendo l’ingegneria menzognera che muove Nic, il quale pur volendosi curare attraverso la psichiatria, finisce per esasperare il suo disturbo e contaminare lo stesso Acerbi. Ci sono riferimenti forse alla situazione psichiatrica del paese? Qualche tuo estimatore colto ha parlato di “satira sociale”.

E.C: Forse, dal momento che io stesso ho conosciuto come dicevo davvero tante persone convinte di essere ad esempio impiegati d’ufficio con scrivanie di cartone sotto i portici di Bologna, non solo barboni visionari ma anche gente comune, tutti posseduti da identità estrose talvolta molto interessanti. Allora posso dire che anche il mio personaggio, resosi conto di avere un grave problema, compromettente e angosciante, cerca aiuto attraverso la strada più breve, quella della psichiatria, purtroppo cadendo nelle mani del Dott. Acerbi; assieme poi decollano verso l’assurdo si può dire.

D: Questo Acerbi finisce per credere che il paziente creda a quanto dice, nascondendo il suo vero problema dietro una gigantesca ennesima bugia. In ogni caso la figura dello psichiatra pur caricaturale mi suona realistica. Ti sei mosso molto abilmente sul crinale dove vero falso e verosimile coincidono nel “semprepossibile”.

E.C: Lo prendo come un complimento, ma resto scettico, anche di fronte ai mie lavori.

D: A proposito, da tempo vorrei chiederti se ti senti più mosso da un’esigenza comica o più da una volontà di ricerca stilistica? Cioè c’è un’intenzione comica o trascende la tua volontà?

E.C: Non posso che scrivere in questo modo, essendo inevitabilmente scettico su tutto; uno che non crede a niente, un miscredente, purtroppo è così. La comicità è quindi inevitabile, è la presa di distanza dalla adesione alle cose, una forma di nichilismo si può dire. Scrivere per me ha spesso significato vivere così il mio scetticismo.

D: E’ sempre stato così, fin dagli esordi?

E.C: Sì direi. Per me i capolavori della letteratura italiana, penso ad Ariosto innanzitutto, ma anche a Boccaccio e via via fino al Manzoni, sono stati tutti capolavori comici. Tutti dotati proprio di una lingua comica se ci pensiamo bene, come fosse un suo carattere distintivo. A loro mi sono sempre ispirato, oltre alla commedia all’italiana come abbiamo già detto.

In questo mio libro credo che il comico annulli almeno in parte le romanticherie, senza arrivare mai ad eliminarle certo. In questo senso mi viene in mente il cinema di Fellini, comico anche quello, quando ne La dolce vita la Ekberg e Mastroianni – immortalati nell’immaginario collettivo come in amore dentro la fontana di Trevi – sono poi due che restano a piedi bagnati non appena s’interrompe il flusso dell’acqua.

 

Poi ci siamo salutati cordialmente, ho riletto un appunto che avevo scritto che mi è parso rivelatore: “sarà una breve conversazione dichiaratamente insincera sul libro”. E’ iniziato quindi un momento di auto-osservazione e ruminamenti sulla grande piaga della bugia sociale.

 

TAG: bugia, comicità, commedia all'italiana, Ermanno Cavazzoni, Il gran bugiardo, La nave di Teseo
CAT: Letteratura

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