E’ in crisi l’Italia dei sindaci. La prefettocrazia non c’entra.
“Quando in Italia non c’erano partiti saldamente organizzati, mancava la partitocrazia, ma c’era la prefettocrazia”.
Era sull’Italia giolittiana, l’Italia de primi dieci anni del Novecento che rifletteva Salvemini. Quelle parole, tuttavia, nascevano guardando l’Italia del 1954, il paese appena uscito dal confronto elettorale che per un soffio non aveva creato a un governo frutto della legge di maggioranza che mandava in soffitta il sistema proporzionale.
Sessant’anni dopo forse quella fotografia dell’Italia in mano ai prefetti non è solo un ricordo dell’Italia di prima. Mi sembra tuttavia, che sarebbe un alibi se ci adagiassimo su quella frase. Così facendo, mi sembra, non prenderemmo in carico la parte rilevante della nostra crisi attuale.
La nomina di Francesco Paolo Tronca, prefetto di Milano, a commissario prefettizio di Roma dopo l’uscita di scena di Ignazio Marino, può essere interpretata come la nuova scena in cui il potere centrale si riprende delle competenze che non sono sue. E’ vero. Tuttavia, non è l’unica interpretazione e credo, che fra tutte, sia quella maggiormente volta a non vedere la natura profonda della crisi che attraversa la politica in Italia.
E’ stato scritto qui da Andrea Masala che l’uscita di Marino “certifica anche l’inadeguatezza del centrosinistra degli ultimi anni, consociativo con Alemanno, discontinuo e diviso con Marino, senza progetto, senza identità, senza organizzazione. Più spesso una multiproprietà per correnti elettorali legate a diversi interessi e pertanto incapaci di fare sintesi e di elaborare progetti generali”.
Per quel che capisco, mi sembra un’analisi condivisibile.
E tuttavia mi pare che sarebbe opportuno rilevare come intorno all’epilogo di questa vicenda si consumi non una vicenda locale ma si esprima una’eclissi di una lunga stagione della storia politica: finisce in forma clamorosa l’Italia dei sindaci.
Quel paese politico che iniziò ormai ventidue anni fa, almeno sul piano delle regole costruito su tre cardini: la presenza e la voglia da parte della società civile di esprimere una propria scelta politica pensata come rifiuto della politica del palazzo; la capacità mobilitante e partecipativa che da quel percorso discendeva attraverso l’esperienza delle primarie; la presenza di un’Italia della società civile che si candida a risorsa per la rinascita.
Un’Italia presunta migliore.
Al fondo di quella convinzione sta un mito del bravo cittadino che da sempre alimenta il fiume sempre carico del qualunquismo dell’antipolitica. Con buona pace di chi in questi venti anni ha spesso ritenuto che fosse sufficiente avere una competenza professionale/o disciplinare o si è fatto paladino dela retorica del “prestato alla politica” come Cincinnato che finito il suo compito torna a casa a coltivare il suo orto non mi sembra che la politica sia un hobby o sia restringibile a una “passione”.
Come molte altre cose la politica è competenza specifica, altrimenti è omelia.
E’ così improprio, allora, che il risveglio da questo “lungo sonno” sia il ritorno dell’Italia dei prefetti? Non credo. Solo che per lo stesso motivo per cui diffido del mito del bravo cittadino, così non mi pare plausibile oggi invocare una sorta di ritorno dell’autoritarismo o del centralismo solo perché si presenta all’orizzonte la nuova stagione dell’Italia dei prefetti.
Intorno alla figura del prefetto Gaetano Salvemini ha scritto pagine di fuoco. Basti questa:
“Se Lombroso preparasse una nuova dizione dell’Uomo delinquente – scrive nel 1949 – dovrebbe dedicare un intero capitolo a quella forma di delinquenza politica perniciosissima che va sotto il nome di ‘prefetto’ italiano”.
E tuttavia nemmeno allora pur ferocemente critico, Salvemini sostenne l’abolizione dei prefetti come invece alcuni anni prima aveva sostenuto e predicato Luigi Einaudi.
E tuttavia, per quanto spesso citato contro i prefetti invocato come un grido contrio l’invadenza dello Stato centraliusta, ultimo residuo dell’autorismo napoleonico, il testo di Einaudi insiste in particolare su un punto che mi sembra dirimente.
Da che cosa sarebbero irrimediabilmente sconfitti i prefetti si chiede? E si risponde: Dall’esistenza di una classe politica. E subito dopo si domanda: Come si forma una classe politica? E allora precisa:
“Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, – scrive Einaudi – la gente sbriga da sé le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da sé né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega l’amministrazione delle cose locali piccole; e via via quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse”.
Dunque il tema alla fine è sempre quello e riguarda la inesistenza, o forse più propriamente la inconsistenza di una classe politica. Una classe politica che in questi ultimi venti anni in Italia ha creduto che per diventarlo fossero sufficienti le pratiche formali delle primarie. Come se una garanzia di democrazia fosse l’alto tasso di partecipazione al voto. Non è inutile precisare che se fosse così o solo per questo dato, allora tra le più floride democrazie dovremmo annoverare i sistemi totalitari, da sempre caratterizzati da un’ alta partecipazion e al voto.
Una classe politica si forma non solo perché “concorre”, o perché riceve un entusiastico plebiscito, ma solo misurandosi con le emergenze della politica. In altre parole solo su una pratica che chiede di essere giudicata.
Alla fine del ciclo dell’Italia dei sindaci noi invece ci ritroviamo a misurarci con una classe politica ancora esigua, poco formata e dove, a segnare ulteriornmente la crisi, anche la pratica delle primarie ha perso il fascino del suo momento magico o “elettrizzante”.
Il prefetto per quanto garantisca di un controllo dall’alto, per quanto sia indubbiamente alluda un potere centrale che “non si fida” o che sottrae responsabilità, non è la causa, ma più spesso è l’effetto di una mancanza della politica.
Il ritorno in campo del prefetto come figura di governo mette in evidenza una situazione, più che crearla. Ma soprattutto dice molto dello “stato di salute” di noi amministrati, più che dei vizi di forma degli amministratori che lo scelgono.
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