Micro-nazionalismi e grandi egoismi
Uno degli insegnamenti che ci ha trasmesso l’esperienza della costruzione degli stati nazionali sorti sulle ceneri degli imperi nell’Europa dell’Est è l’insidia dei nazionalismi negli stati di nuova formazione, soprattutto in quelli di piccola taglia. La tragedia del nazi-fascismo ha un po’ oscurato le vicende dei regimi – per lo più autoritari – di quei paesi che, nati da poco, dovevano costruire una narrazione nazionale in cui l’altro, il diverso, era sistematicamente escluso. L’Ungheria, la Polonia, la Romania degli anni Venti e Trenta erano paesi in cui le minoranze vissero tempi particolarmente difficili e subirono gravi persecuzioni. Per fortuna nei nostri ordinamenti esistono accorgimenti costituzionali e legislativi che tutelano le minoranze, delle quali nessuna maggioranza può imporre la soppressione di diritti fondamentali. Col tempo, soprattutto tra anni ’60 e ’70, il ventaglio dei diritti si è ampliato, venendo incontro a nuove sensibilità che hanno individuato i gruppi sociali tradizionalmente più soggetti alla forza delle élite al potere: quindi non solo le minoranze etniche, ma anche le donne, i bambini, i disabili. E alcune componenti un tempo da tutelare sono poi diventate a loro volta classe dirigente (come sono ormai le donne in alcuni paesi più avanzati). Abbiamo imparato così che lo stato di diritto è preferibile all’omogeneità etnica, religiosa o culturale, per tutelare i soggetti più deboli e per garantire le più svariate istanze di una società plurale.
Per questo fa impressione la vicenda catalana. I catalani sono stati a lungo oppressi da Madrid, anche prima della dittatura di Franco, ma è difficile scorgere nei quarant’anni di democrazia post-franchista forme concrete di persecuzione. Certamente ci sono stati governi che hanno nutrito minore interesse per la difesa dell’autonomia catalana – il PP è stato particolarmente attivo nel contribuire alla crescita dei partiti indipendentisti – e le parole del Re all’indomani del referendum e delle violenze della polizia testimoniano un disprezzo di fondo dell’élite madrilena per la specificità catalana che le massime istituzioni non dovrebbero mostrare.
Ma cosa darebbe in più l’indipendenza, a parte una nuova squadra olimpica, un nuovo esercito e un accresciuto apparato amministrativo e diplomatico? Per di più in una Catalogna indipendente, nella quale una grossa fetta di popolazione sarebbe di lingua e cultura castigliana, si riproporrebbe la situazione che oggi denunciano i catalani. Quale sarebbe il destino degli spagnoli residenti in Catalogna, rappresentando essi una percentuale assai maggiore di quella dei catalani oggi residenti nella Spagna unita? Che tutele e garanzie ci sarebbero per la loro specificità linguistica e culturale? La Catalogna, per evitare di nascere con tensioni, difficilmente governabili fuori dall’UE e senza la rete della NATO, dovrebbe a sua volta diventare uno stato binazionale e bilinguistico. Ma allora che senso avrebbe avuto tutto questo processo di separazione da Madrid?
Lo stesso problema si riproporrebbe sull’altra questione che i nazionalisti catalani denunciano come ingiusta: il trasferimento di risorse dalla ricca Barcellona alle regioni più povere della Spagna. Ogni comunità ha le sue aree più e meno ricche: la stessa Spagna deve gran parte della sua fortuna ai paesi più ricchi della CEE, che l’hanno destinata di risorse con le quali Madrid e Barcellona sono potute diventare due città prospere e attraenti. Oggi, dopo avere beneficiato di questi trasferimenti provenienti soprattutto da Francia e Germania, la Catalogna non vuole dare il proprio contributo alle aree più depresse, come l’Estremadura e l’Andalusia. Nel nuovo stato, nel quale ci saranno altre forme di disuguaglianze di reddito, probabilmente assisteremmo alla rivolta di Barcellona contro le valli dei Pirenei, le aree bagnate dall’Ebro o altre zone più sfortunate.
E’ un meccanismo perverso, che viviamo da tempo anche in Italia, dove la retorica dell’autonomia fiscale e del rifiuto ad aiutare le aree depresse colpisce tutte le regioni del Nord, nelle quali però non mancano vasti e gravi episodi di corruzione e di spreco delle risorse pubbliche, ma anche quelle del sud, dove si fantastica di un paradiso senza problemi quale sarebbe stato il regno borbonico prima dell’Unità.
Gli sprechi e gli scandali che hanno coinvolto negli ultimi anni la Regione Lombardia, cresciuti da quando il maggiore federalismo ha aumentato le risorse disponibili, non sono meno gravi di quelli di cui è protagonista Roma, eppure i lombardi sembrano esserci affezionati, tanto da rieleggerne con costanza i responsabili. I soldi che restano in regione non finiscono meglio di quelli che ne escono. Allora forse non è solo una questione di autonomia – in sé necessaria per rendere più efficaci le decisioni e chiare le responsabilità, ma non risolutrice di problemi se la classe politica e i cittadini non sono all’altezza.
Il problema è piuttosto la perdita del senso di comunità, e il radicamento di un egoismo che contrappone gruppi, individui e aree geografiche. Se non si recupera l’idea che a tenere insieme la società non ci sono soltanto interessi materiali ma anche altro, come il senso di giustizia e di solidarietà, quando i catalani si saranno liberati degli andalusi – o i lombardi dei lucani -, in seguito il problema saranno gli abitanti della provincia dell’Ebro – o i valtellinesi – e dopo ancora il quartiere di Trinitat Vella – o Quarto Oggiaro.
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