L’opera d’arte è sempre un atto politico
“Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi.”
Scoppia un altro caso Grillo. Come se i guai familiari non fossero abbastanza, nuovi riflettori si accendono sul garante del Movimento 5 Stelle. É indagato dalla Procura di Milano per i contratti pubblicitari sottoscritti nel 2018/2019 dalla compagnia marittima «Moby spa» dell’armatore Vincenzo Onorato; nel silenzio assordante dei 5 Stelle, sottobanco Grillo “lavorava” per Onorato da mesi. L’accusa dei magistrati a Grillo è di traffico di influenze illecite, avendo trasferito ai parlamentari M5S le richieste dell’armatore. Nel contratto un compenso di 120mila euro l’anno.
Nel 2020, alla tavola rotonda Ideas for a new world organizzata dall’allora presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, pochi giorni dopo il Sì del referendum al taglio dei parlamentari, disse di non credere nel Parlamento ma nella democrazia diretta. Sostenne che sarebbe stato meglio estrarre gli eletti a sorte.
Come rinnovare la democrazia rappresentativa senza lasciarla giacere come anacronismo delle nostre organizzazioni sociali e politiche, come appare oggi? Sicuramente solo una democrazia popolare può salvare l’ideale democratico dall’oligarchia o dal populismo.
Per spiegare cosa sia la democrazia popolare bisognerebbe rifarsi a Rancière che parte dall’uguaglianza, dalle intelligenze anzitutto, e che declina questa parola nelle relazioni tra dimensione estetica e politica, tra spettacolo e spettatore.
Secondo il filosofo francese, Rousseau denunciava il paradosso di quei drammaturgi che avevano la pretesa di rendere la gente virtuosa facendoli godere dello spettacolo di gente viziosa e muove una critica alla rigidità dell’opposizione di Adorno tra arte e industria culturale che produce una visione estremamente limitata e falsa delle trasformazioni estetiche di quello che è stato il suo secolo. L’arte critica ha bisogno di presupporre l’ignoranza per supporre che l’arte sia produttrice di conoscenza, dunque di azione.
Il suo modo di rileggere i rapporti tra estetica e politica implica una duplice operazione: da un lato, evitare che i due campi collassino l’uno sull’altro, ma, d’altro lato, mostrare la loro stretta connessione. Ranciére parla di una estetica della politica, che non si riduce all’estetizzazione o alla spettacolarizzazione della comunicazione del potere, ma riguarda il modo in cui gli atti politici ridefiniscono il visibile e il dicibile.
La sua riflessione sulla politica scaturisce dal suo lavoro sull’emancipazione operaia nel XIX secolo. Lavoro che gli ha consentito di guardare all’emancipazione operaia come a una questione estetica, in un senso molto preciso: un altro modo di abitare il mondo, di far uso delle proprie braccia, del proprio sguardo e della propria voce, di relazionarsi al tempo del lavoro o allo spazio della città. Questa ricerca gli ha fatto capire quale fosse la posta in gioco per Platone, quando escludeva dalla politica gli artigiani «perché il lavoro non può aspettare», o per Aristotele, quando distingueva la parola umana, destinata alla giustizia, dalla voce destinata all’espressione animale del piacere e della pena.
La politica si gioca in questo luogo, sulle compartimentazioni di uno spazio e di un tempo del comune.
Il potere è nelle strade, si diceva nel ’68, opponendo gli spazi conquistati delle università e delle fabbriche ai luoghi in cui il potere di tutti era recintato e privatizzato. I movimenti degli ultimi anni – primavere arabe, Indignados, Gezi Park e non solo – hanno illuminato quel lavoro estetico che è la costruzione di un altro mondo comune.
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