La costruzione del nemico: il dipendente pubblico e le statistiche

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13 Gennaio 2015

In questi giorni circolano alcune gustose interpretazioni di dati statistici, secondo i quali nella pubblica amministrazione l’assenteismo sarebbe più alto del 50%, tanto che, se lo si potesse riportare ai livelli del privato, lo Stato risparmierebbe 3,7 miliardi. Questo, sul Sole del 10 gennaio 2015.

La cifra, e i dati, sono di tutto rispetto. Proprio per questo è necessaria una piccola indagine. Il primo passo consiste nell’approfondire la questione, leggendo l’articolo. Si scopre così che i dipendenti pubblici hanno totalizzato 19 giorni di assenze retribuite contro i 13 dei privati. I dati, in effetti, sono proprio questi, tuttavia, una volta esplicitati, sembrano molto meno sconvolgenti, tanto più che, se consideriamo le cose dal punto di vista delle assenze totali dei dipendenti pubblici, si scopre che i privati fanno solo sei giorni in meno, cioè meno di un terzo. Sì, stiamo manipolando l’interpretazione, esattamente come ha fatto il Sole, l’unica differenza è che ve lo diciamo. Anche il nostro calcolo, però, è giusto: 19: 3= 6,3 giorni, che corrispondono al 33,3%, quindi, i sei giorni sono un po’ meno di 1/3 (per l’esattezza, il 31,6% in meno rispetto alle assenze dei dipendenti pubblici). Se il calcolo si effettua invece a partire dai privati, come fa il Sole, si devono aggiungere ai giorni di assenza dei privati (13), altri sei giorni, cioè il 46,3% in più rispetto ai 13 (il titolo si limita ad arrotondare). Il rischio è di pensare, dal titolo, che i dipendenti pubblici, questi assenteisti “per natura” sembra suggerire l’articolo, questa rovina dell’Italia, sembrerebbe di dover concludere, facciano il doppio di giorni di assenza. Eh, no. Non è così.

Continuando nella lettura, ancora meno chiaro è il modo in cui si potrebbero risparmiare ben 3,7 miliardi, come suggerisce invece il Centro Studi di Viale dell’Astronomia, che lavora per l’associazione degli Industriali, Confindustria (ah, non ve l’avevo detto, scusate, sì, questo in effetti relativizza un po’ la sua posizione, visto che potrebbe esserci un conflitto di interessi…). Il costo del lavoro per giornata lavorativa persa è del tutto ipotetico, comunque, visto che quando io prendo un giorno di permesso retribuito sul lavoro (le ore le recupero, quindi non costano nulla) è raro che qualcuno mi sostituisca per intero (alla scuola sono stati tolti i soldi per le supplenze), quindi i conti sarebbero da rifare, ma non mi voglio qui impelagare nella faccenda.

Proseguendo ancora, si scopre che i dipendenti pubblici si assentano solo dieci giorni l’anno per malattia, mentre 9 altri giorni sono riservati a permessi vari, per motivi personali (garantiti nel contratto: nel mio, per esempio, se ne trovano 3), partecipazione a esami (garantiti dal contratto), riunioni sindacali (idem), corsi di autoaggiornamento (ormai pressoché obbligatori, fino a 5 giorni) o convegni.

Il risultato di questa analisi, fondata su dati raccolti in modo un po’ approssimativo e interpretati in modo un po’ (almeno un po’) tendenzioso, è che si esagera la portata di un fenomeno e si presenta il dipendente pubblico come un fannullone rispetto al privato, anzi sembra che lo “statale” sia addirittura la causa di un abnorme deficit di bilancio.

Non è finita. Secondo atto: la Repubblica dello stesso giorno (qui i dati sono dell’associazione degli artigiani di Mestre) riporta che nella pubblica amministrazione le assenze per malattia, nel 25% dei casi durano solo un giorno. Fantastico, mi sono detto. Sono degli eroi, perché, come ben so dalle mie colleghe e dalle mie stesse malattie, spesso ci si ammala prima o dopo il fine settimana. Non è uno scherzo. Cerchiamo di trascinarci fino alla fine della settimana, anche se stiamo male, per ammalarci poi quando abbiamo un paio di giorni di pausa, proprio per non perdere preziosi giorni di lezione, per esempio (io in genere mi ammalo durante le vacanze di Natale, spesso quando andiamo in Germania, chissà perché, quando non posso chiedere un permesso)

Dato poi che quando siamo a casa in malattia lo stipendio ci viene decurtato (e siamo magari indebitati, non riusciamo ad arrivare alla fine del mese ecc. ecc.), tendiamo a evitare di esagerare con i giorni, e torniamo (o restiamo a scuola) anche se siamo febbricitanti, se abbiamo nausee e diarree ecc. ecc., se siamo cioè infetti (per attacco virale o batterico), per la gioia dei nostri studenti che, contagiati, si faranno, loro sì, anche 4 o 5 giorni di malattia, mentre noi no, noi torniamo subito (o restiamo, tetragoni).

Eh no, secondo la Repubblica non siamo eroi. Perché, ritiene l’autore dell’articolo, un assenza di un giorno per malattia sarebbe più facile da programmare. Be’, confesso che non riesco a capire. Sarò troppo ingenuo, però, pensando alle vacanze di Pasqua, che durano pochi giorni, o a quelle di Natale, che sono finite poco fa, di mercoledì, mi direi: se dovessi programmare un’assenza per malattia, la farei durare almeno 3 giorni, così avrei praticamente una settimana in più. Al di là del fatto che durante questo week end sono stato effettivamente febbricitante (ma non ho chiesto giorni di malattia), continuo a non capire perché si debba interpretare così questo 25% di assenze di un giorno. Mah! Ho l’impressione che ci sia un po’ di malevolenza. Tanto più che, continuando la lettura dell’articolo, si scopre un’altra cosa incredibile: il numero medio dei giorni di malattia dei lavoratori dipendenti nel settore privato è superiore rispetto a quello del settore pubblico. Come? Cosa? Ma se… Sì, sembra il contrario di quanto asserito nell’articolo precedente. Se i privati fanno 18,3 giorni di assenza, i dipendenti pubblici ne fanno solo 17,1. Avete letto bene: i dati non coincidono con quelli dell’articolo precedente.

 L’impressione tratta da questi due articoli è che si cerchi apposta qualche numero, qualche dato che possa essere interpretato in maniera negativa. Non si cercano cioè informazioni per smontare i propri pregiudizi (anzi, questi si nascondono, nel caso ci siano), bensì solo per confermarli. L’11 gennaio in una lettera al Sole stimolata da questi bellissimi articoli si sostiene: «È noto che le malattie di un giorno sono quasi sempre di comodo». Ormai è una certezza nota, e non bisogna nemmeno più provarlo. A breve ci si chiederà di dimostrare in modo incontestabile che così non è (la fallacia si chiama: inversione dell’onere della prova). A breve, reintrodurremo il processo inquisitorio.

In una discussione nel merito, questo procedimento è scorretto, scortese, non rispetta il Galateo e neanche i criteri di interpretazione delle correlazioni emerse nelle rilevazioni statistiche. In conclusione, contribuisce a rafforzare un pregiudizio diffusissimo. Non è proprio il miglior servizio che si possa rendere al Paese (né al giornalismo).

Logon Didonai

Per chi fosse interessato alla manipolazione delle statistiche:

Walter Krämer, Le bugie della statistica, Mimesis, Milano 2009.

TAG: Costruzione del nemico, Critical Thinking, Dipendenti pubblici, Giorni di malattia, Manipolazione delle statistiche, pregiudizi e stereotipi, Pubblico e privato, Statali
CAT: Filosofia, lavoro dipendente, Pubblico impiego

4 Commenti

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  1. daniel-predoi 9 anni fa

    Certo che combattere il cherry-picking facendone altro, in parte ammesso e in parte celato, fa sorridere; ma fa parte del gioco e dell’intenzione. Solo una cosa: “Nella Pa l’assenteismo è più alto del 50%” se una persona da questo titolo evince che “facciano il doppio di giorni di assenza” (tra l’altro parliamo di un giornale che fa ampio utilizzo dei numeri) è un imbecille patentato e non è di certo strumentalizzazione delle statistiche.

    E se vogliamo ancora dirla tutta la discrepanza di dati viene dalla differenza delle fonti CGIA per Reppublica e Confindustria, naturalmente, per il Sole24Ore; ma non è questa la discrepanza quanto il fatto che l’uno è riferito al 2012 e l’altro al 2013. E’ si vero che il primo si fonda su statistiche INPS e il secondo su un campione d’imprese; ma rimane il fatto che, pur probabilmente tediosa la ricerca di Confindustria (comunque strettamente al settore industriale), io non vedo questa abreazione di dati. E da che parte finiscono tutti i parastatali in queste statistiche?

    Le cose sono diventate due, o forse tre, me ne scuso: la costruzione dell’amico/eroe però non è una strada meno ambigua della costruzione del nemico.

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  2. andrea.gilardoni 9 anni fa

    Grazie della replica. La mia manipolazione e’ stata dichiarata: avevo l’intenzione di far vedere che e’ privo di senso usare in modo strumentali dati che hanno poco significato di per se’. Ma del resto lei l’ha capito benissimo. Ritengo utile anche la riflessione sul rovescio, del resto i dipendenti pubblici non sono oggi visti come persone normali che svolgono una funzione essanziale, bensi’ come un peso. Sara’ forse il caso di vedere quanti articoli si trovano in questo senso. Certo che le fonti sono diverse, cosi’ come le conclusioni, ma questo era scritto anche nell’articolo. L’obietzivo, come dice lei, era quello di far sorridere. E di far riflettere sulla nostra superficialita’ quotidiana. Cordiali saluti.

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    1. daniel-predoi 9 anni fa

      Uhm, io in buona sostanza ho visto soprattutto una strenua difesa del settore che allo stato attuale è effettivamente attaccato; come invece non era certamente prima del 2002 quando anche quattro giorni dopo omicidi politici, il 23 Marzo, non si gridava “Je Suis Charlie”, ma qualcosa di simile a “Tu si tu no art. 18 io non ci sto”. Sono altre storie, certo, storie di un’Italia che ancora però credeva nel Pubblico Impiego e, forse, nei Sindacati e per questo non si udivano allora, per altre ragione le udiamo adesso e per questo la racconto; può non piacere, ma la sinusoide della storia ha sempre le sue ragioni per le sue inversioni e lo sappiamo entrambi.

      Magari, però, – forte sostenitore dell’inefficienza del settore – sono io pregiudizievole in questo senso e non voglio fare l’elenco di tutto ciò che nel lavoro della P.A. (scuola compresa) non funziona e, ancor peggio, non è a norma di legge; non è né “posto” e né “luogo”. Ad ogni modo se così fosse si tratterebbe di trovare l’incontro tra due rette parallele al finito, come credo sia, pur essendo profondamente d’accordo sulla superficialità, proprio per questo sorrido nel vedere “combattere il cherry-picking facendone altro”; o forse è semplicemente perché credo che le statistiche si sbugiardano nel metodo oppure strettamente nei numeri altrimenti si è appunto superficiali. Mi affiora alla mente così B. Russel quando afferma che “la matematica, vista nella giusta luce, possiede non soltanto verità ma anche suprema bellezza – una bellezza fredda e austera, come quella della scultura”, dato che si parla di filosofia.

      In ogni caso, sono solo uno studente di tutt’altre materie e appassionato a questi temi; è stato un piacere leggerti e se domani lo trovo in libreria seguirò anche il tuo consiglio di lettura – essendo fermo a “Mentire con le statistiche” -, ma se dovessimo “rincontrarci” dammi del tu. In bocca al lupo ;)

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      1. andrea.gilardoni 9 anni fa

        Grazie. Ha fatto piacere anche a me poter discutere. Abbiamo dunque chiarito: a) che le statistiche bisogna saperle leggere; b) che bisogna controllare bene i numeri e i dati; c) che le fonti sono importantissime; d) che ci vuole metodo nell’elaborarle. Tra una decina di giorni proverò a fornire qualche indicazione di metodo. Prova a intervenire di nuovo. Per il momento suggerirò anche ai miei studenti di leggere la nostra discussione. per quanto riguarda la questione della scuola pubblica, varrebbe la pena di discuterne nell’ambito del TOPIC La buona scuola. Comunque, io sono un insegnante che, insieme ai colleghi, vorrebbe rendere migliore quello che è già buono… (E funziona meglio della scuola privata, dove pure, occasionalmente, ho insegnato.)
        Sui sindacati non mi esprimo, ma capisco il disagio.

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