Disobbedienza è il coraggio e l’eleganza che ci rende padroni della nostra sorte

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1 Maggio 2022

“Do you see the dramatic escalation of violence?
The world outside is insane,
It’s full of evils.
Without wasting time,
We take refuge
In the empty Essence.
Caliti junku, da sira ‘a matina”

Questo articolo nasce da una serie di coincidenze che non potevano essere trascurate. Uno dei motivi per cui mi appresto a scriverlo è che, come ho detto qualche giorno fa in classe ai miei alunni, credo nel life long learning, che siamo sempre in costruzione, che anche i professori non smettono mai da imparare. L’altra ragione è che ho rivisto qualche mia ex alunna, una delle quali era considerata fuori dagli schemi, non sempre in linea con ciò che dicevano i professori, con qualcuno aveva un rapporto di odio amore, si è sempre dedicata a letture che riguardavano i suoi interessi che non sempre coincidevano con i programmi scolastici. Brava, ma, per il suo non essere sempre “ligia” secondo gli standard scolastici, non considerata bravissima. Ha sempre un po’ deviato dalla norma, anche nella generosità, una che definiresti disobbediente, non allineata necessariamente con la scuola o con tutti i professori.
Incontrando i genitori di questa alunna, mi hanno ricordata come quella che fa fare esperienze extrascolastiche ai ragazzi, porta ragazzi a conoscere autori, li fa scrivere su un blog che mi era stato proposto, di cui la figlia è stata entusiasta vedendo riconosciute da alcuni commenti le sue buone capacità di scrittura. Sono stata ricordata come quella che parla in classe di attualità, di politica. La copertina dell’articolo è l’invito che la mia ex alunna mi ha girato poiché oggi sarà presente alla manifestazione.
Che significa non essere ligia, o disobbediente agli standard della scuola? L’altro ieri, confesso, mentre svolgevamo gli incontri online con i genitori, nell’attesa, tra un genitore e l’altro, ho peccato, ascoltando furtivamente conferenze.
Quella del professore Sergio Labate ha trattato proprio il tema della disobbedienza. Riassumo quanto in parte ho potuto ascoltare.
Disobbedienza è il contrario dell’obbedienza. Contrariamente a quanto succede per un bambino per il quale disobbedire è facilissimo, dice no per principio, per un adulto la disobbedienza, il dire no implica spesso erigere muri, resistenze. La capacità di dire si ci ha quasi assuefatti, diciamo si costantemente. Anche la filosofia ha pensato al rapporto obbedienza/disobbedienza nei termini della minore e della maggiore età. Kant afferma che l’età moderna è l’uscita dallo stato di minorità, un’uscita che consiste nella capacità di disobbedire, cioè di mettere in discussione una certa tipo di leggi, di regole, condotte morali, pratiche, etiche, precetti che sono stati dati come tali da un’autorità esterna a noi. Il passaggio dalla minore età alla maggior età per Kant, quindi, coincide con la capacità di disobbedire; in questo rapporto tra la disobbedienza e la modernità risiede il nostro essere moderni.
Il professor Labate spiega poi qual è la misura temporale della disobbedienza, cioè quando è che possiamo essere consapevoli di essere disobbedienti e fino a che punto disobbedire. Tutta l’umanità sociale vive in questo dilemma che è il dilemma di Antigone e di Creonte, una società non può essere semplicemente composta da Antigone, ma neppure può essere comandata da Creonte.
Quando si parla del mito di Antigone si ricorda la storia di una ragazza che da sola ebbe il coraggio di contrastare leggi dello Stato da lei ritenute ingiuste. Non a torto, Antigone è da sempre considerata il simbolo della lotta contro il potere, della ribellione romantica e solitaria contro il dominio ingiusto di un tiranno senza limiti, che combatte contro regole inique e vessatorie.
La difficoltà a dire di no è contraddittoria rispetto al modo in cui pensiamo l’individuo moderno perché pensiamo all’io della modernità, quello dopo la rivoluzione francese, come un individuo basato sull’autonomia, che è quello che diceva Kant. La differenza fra noi e i nostra avi consisterebbe nel fatto che i nostri avi non avevano la possibilità di prendere in considerazione la disobbedienza, noi, invece, siamo abituati culturalmente, essedo individui autonomi, a ritenere la disobbedienza lecita ma anche auspicabile. La contraddizione culturale fortissima è la difficoltà che spesso sperimentiamo nel dire di no e nel disobbedire. Il professore Labate cita nuovamente Kant: ‘’La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare, altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far si che la grande stragrande maggioranza degli uomini e con essi tutto il bel sesso ritenga il passaggio allo stato di maggiorità oltrechè difficile anche molto pericoloso provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. (Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?
La servitù, la sottomissione volontaria, obbedire significano accettare di essere degli schiavi. Kant ci dice che tendiamo ad essere pigri perché ci è comodo, ci permette di non dover scegliere, di essere rassicurati, che in termini filosofici e esistenziali ci permette di non dover esercitare la libertà. Essere vili, essere pigri, è il modo in cui noi ci ripariamo da tutto questo. Secondo Kant, l’uomo moderno deve tendere all’autonomia, alla capacità di disobbedire le leggi eteronome, le leggi che sono date da altri, sebbene sia faticoso disobbedire e ci conviene il contrario.
Si è celebrato poco fa la liberazione dal fascismo. Cerco – e spero di riuscirci – di tradurre su un piano storico politico quanto diceva Kant. Se pensiamo al fascismo si può leggere alle sue basi una pigrizia morale degli italiani, c’è uno scetticismo e un fondo di machiavellismo che induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori, e a trasformare in commedia le più cupe tragedie. Abituati a ragionare per intermediari nei grandi problemi di coscienza, è naturale che si rassegnino facilmente all’appalto anche nei grandi problemi della vita politica. L’intervento del Deux ex Machina, del Duce, del domatore – si chiami esso Papa, re, Mussolini – risponde sovente a una loro necessità psicologica. Da questo punto di vista il governo mussoliniano è tutt’altro che rivoluzionario. Si riallaccia alla tradizione e procede sulla linea del minimo sforzo. Il fascismo, è contrariamente a quanto appare, il più passivo risultato della storia italiana.
Edward Bennet, un politologo statunitense che negli anni cinquanta intervistò per due anni gli abitanti di Chiaromonte, un paesino Lucano in provincia di Potenza, condusse uno studio sul campo nel saggio “Le basi morali di una società arretrata”. Ne emerge un ritratto di cinismo e individualismo difficile da accettare, ma non solo. Banfield elabora il concetto “di familismo amorale” – non immorale, ma amorale perché convinto che il bene del proprio gruppo venga per primo – col quale individua la tendenza italiana ad anteporre al bene collettivo l’interesse materiale e il beneficio della famiglia, del gruppo, del clan, del partito della corporazione. In una società di familisti amorali, i deboli sono favorevoli ad un sistema in cui l’ordine sia mantenuto con la maniera forte. Il fascismo mise in piedi di per sé un sistema estremamente corrotto, clientelare, familistico, sostituendo la democrazia dei governi liberali con un regime autoritario. Un regime che generava consenso e che propagandava il personale prima della città o del Paese, “io e noi” prima di “voi”, una specie di valore culturale e una prassi.
La scuola non è un mondo avulso dalla realtà, è un microcosmo in cui si dibatte e si formano alunni che possano incarnare lo spirito di quanto studiano. Lo scopo principale dello studio non è solo l’acquisizione di un buon voto, ma la capacità di formare cittadini sensibili, uomini e donne capaci di scegliere il giusto, di far coincidere il proprio bene col bene comune. Citando le parole di Antonio Vigilante, “La scuola può riconquistare significato soltanto se docenti e studenti conquistano il senso della cultura come ricerca, lotta e costruzione comune di un mondo migliore, superando l’individualismo insito tanto nella concezione della cultura come formazione personale, quanto nella promessa di affermazione sociale e lavorativa”. L’empowerment di cui parla Antonio Vigilante, “il conferimento di potere, è lo scopo del lavoro scolastico…l’apprendimento che avviene a scuola deve essere collegato, in modo strutturale e non estemporaneo, a qualche forma di servizio in favore della comunità”.
Molti dei miei studenti non provengono da famiglie benestanti, non tutti possono permettersi gli studi universitari, chi li intraprende, oltre ad impegnarsi nello studio, rinuncia a tanto altro. Il tema della precarietà del lavoro è molto sentito, alcuni di loro lavorano per avere un minimo di autonomia durante gli anni universitari, altri addirittura iniziano a lavorare prima, negli ultimi anni della scuola secondaria di secondo grado.
Quest’anno, tra le altre classi, insegno in una classe di cucina dell’istituto alberghiero, termino perciò, con una citazione di Alberto Prunetti che mi sembra molto appropriata: “God Save the Queen. Pronunciate queste parole, non mi ero mai sentito tanto inglese. Col giuramento formulato al cospetto della Regina terminava il mio corso di formazione. Vivevo nel Regno Unito e il seminario di cinque ore mi valse il “Food and Health Certificate”, un titolo nobiliare che in Inghilterra si rilascia per legge a chi, assunto nella ristorazione, manipola o serve alimenti, sia sguattero o maestro di sala”.
In questo articolo in cui ho citato amici che considero un riferimento culturale, termino con una citazione di un autore che seguo da sempre, Gianrico Carofiglio che affronta, tra tanto altro, il tema della ribellione. Il “No” secondo Emily Dickinson “ è una delle parole più selvagge del vocabolario…… è un’arte difficile e perduta, quella di dire no. No alla brutalità della politica, no alla follia delle ingiustizie economiche che ci circondano, no all’invasione della burocrazia nella nostra vita quotidiana. Sempre Carofiglio rievoca Don Milani. “Diteci cosa avete insegnato ai soldati. l’obbedienza ad ogni costo, E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, battereologiche, chimiche, la tortura”. La mera violenza è muta, e per questa ragione soltanto essa non può essere grande”. Ribellione è allora assumersi responsabilità, è affrancamento dalla schiavitù.

Oggi 1 maggio, si celebra la Festa dei Lavoratori. In Sicilia, dopo due anni di stop a causa della pandemia, torna la cerimonia in ricordo della strage di Portella della Ginestra, avvenuto 75 anni fa, il primo maggio 1947, in cui furono uccise 11 persone, tra braccianti, contadini, donne e bambini.
Buona festa dei Lavoratori.

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CAT: Filosofia, scuola

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