Il G8 dei genovesi: prima una fiction, poi un trauma reale

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17 Luglio 2021

Il G8 di Genova, vent’anni dopo, è una ferita aperta per il mondo intero. In città arrivarono persone da tutto il mondo, che portarono le proprie rivendicazioni ovunque e con esse un trauma da violenza che niente potrà eliminare. Spesso però ci si dimentica di cosa significò per i genovesi.

Investimenti pubblici ingenti diedero un nuovo assetto alla città, che doveva apparire ancora più bella ora che i riflettori erano puntati su di lei. Ma gli architetti furono costretti a lavorare senza sosta e con finanziamenti che tardarono ad arrivare. I cambiamenti per Genova erano iniziati già con i Mondiali del 1990 ed erano proseguiti con le celebrazioni per il quinto centenario della scoperta dell’America nel 1992. E dopo il G8 ci fu la designazione di Capitale Europea della Cultura, nel 2004.

Alcuni progetti per il G8 li realizzò Renzo Piano con il suo studio, conferendo una nuova immagine al porto antico. Ci sono però diversi architetti che ebbero un ruolo importante in quei mesi. Il governo italiano con Silvio Berlusconi come premier incaricò proprio un’architetta di stabilire – quantomeno così dichiarava – un dialogo tra istituzioni e attivisti riuniti nel Genoa Social Forum. Lei era Margherita Paolini e aveva come referente il ministro plenipotenziario a capo della Struttura di Missione del G8 Achille Vinci Giacchi. Oggi Paolini scrive per la testata di geopolitica Limes, di cui è stata componente del comitato scientifico già negli anni Ottanta. Attaccata soprattutto dalle destre per aver ricevuto allora cinquanta milioni lordi di compenso dal governo, Paolini poteva essere una figura ponte per via del suo ricco curriculum, in cui si trova una forte esperienza come consulente e poi funzionaria all’Eni, tanto quanto rapporti con le ong e attività umanitarie. Nei G8 precedenti la società civile non aveva ricevuto ascolto, ma come disse Paolini in un’audizione alla Camera nel settembre 2001, dal novembre precedente le fu chiesto anche di tracciare una “fisionomia politico-culturale del dissenso nelle sue rivendicazioni fondamentali” e organizzare un forum parallelo, dal momento che al G8 erano presenti realtà diversissime, in 1187 sigle. Dalla rete Lilliput, alla rete dichiaratamente contro il vertice, ai movimenti cattolici di base, al Tavolo della pace, Acli, Arci, Forum del terzo settore, ai partiti, a gruppi femministi nonviolenti che si opponevano al patriarcato, come il Pink Bloc.

Già nei mesi precedenti c’erano state contestazioni in più città. In aprile, riconoscendo l’insofferenza del Genoa Social Forum nei confronti dell’operazione del governo, Paolini aveva pensato di dimettersi. La tensione era cresciuta ancora di più dopo i fatti di Göteborg, in Svezia, dove durante la riunione del Consiglio Europeo la polizia sparò lacrimogeni ad altezza d’uomo e un ragazzo di 19 anni, Hannes Westberg, restò gravemente ferito dai colpi di pistola di un poliziotto. Un preludio all’omicidio di stato di Carlo Giuliani. La Banca Mondiale decise allora di annullare il vertice previsto a Barcellona a fine giugno. E già da febbraio Berlusconi aveva deciso di limitare al 15 luglio lo svolgimento di manifestazioni capaci di aggregare masse di persone, che avrebbero potuto esprimere il proprio dissenso solamente se lontano dai politici, in un “percorso unico predeterminato a sufficiente distanza dalla zona rossa”. Paolini non aveva esperienza in materia di globalizzazione né di ordine pubblico e disse persino «è arrivata una quantità di persone notevolmente superiore alle aspettative. La preparazione del Forum è stata particolarmente affannosa». Il Ministro dell’Interno Claudio Scaloja non si esprimeva quasi mai, ma fu lui a ordinare di sparare sui manifestanti il 20 luglio.

Un architetto che aveva lavorato per Renzo Piano, Carlo A. Bachschmidt, era responsabile della segreteria del Genoa Legal Forum, consulente tecnico per l’archiviazione e l’analisi del materiale video fotografico relativo al summit e responsabile del sito processig8.org, poi regista nel 2011 del documentario Black Bloc e autore di alcune pubblicazioni sul trauma vissuto. In questo periodo sta portando nuovamente in scena uno spettacolo teatrale scritto con la giornalista Annalisa Camilli, I giorni di Genova.

Nel 2010 emerse uno scandalo attorno alla costruzione dell’hotel che nasceva nell’ex ospedale militare, mai aperto, e al suo centro benessere mai realizzato. L’edificio l’aveva voluto l’architetto Marco Casamonti, ancora oggi influente, che le intercettazioni rivelarono essere protetto da legami con Berlusconi e il Vaticano. Tutto a danno dei genovesi in primis.

Anna Positano oggi è una fotografa e nel 2001 studiava architettura all’Università di Genova. Dice: «Ricordo com’era vivere la città nei giorni precedenti perché abitavo vicino alla zona rossa. C’era pochissima gente in giro, sembrava di essere in guerra. Ancora oggi è difficile parlarne con obiettività. Rifuggo la violenza, ma durante le manifestazioni nessuno era tutelato nella propria incolumità: l’inesperienza di chi doveva garantire l’ordine pubblico pareva costruita ad arte per creare disordine. Ricordo che appena dopo lo sparo a Carlo Giuliani il vicequestore gridò a un manifestante “Sei stato tu col tuo sasso!”, quando invece era chiaro cos’era successo. Nessuno dovrebbe morire per il diritto di manifestare. Le violenze sono continuate anche nei giorni successivi. Avevo paura di chiunque fosse in divisa e la domenica, a G8 finito, due mie amiche furono portate senza motivo alla caserma di Bolzaneto». Non furono le sole.

Giuseppe Ricupero è un ricercatore allo Iuav. Nel 2011 aveva undici anni, nel 2019 ha realizzato uno studio sulla nozione di storia nell’architettura italiana nell’ultimo cinquantennio. Dice: «Sono stato a Venezia per i lavori del G20 la settimana scorsa e ho trovato di nuovo forti misure di sicurezza. In laguna, come vent’anni fa a Genova, una porzione della città è stata identicamente sottratta allo spazio pubblico, e quando l’abitabilità della città viene ferita inevitabilmente la reazione/irritazione è quasi inevitabile. Per il G8 vennero appesi agli alberi di limone dei frutti di limone, con del filo invisibile di nylon per farli apparire più chic, mentre palazzi decadenti venivano coperti da tende, come quinte teatrali. Vennero piantate palme a caso, ovunque, e ne avanzarono pure. Era vietato stendere la biancheria intima, un uomo lo fece volutamente in senso di protesta. Questi sono solo esempi di come si cercò di rendere una costruzione scenografica e pittoresca della città, con un maquillage da basso cinema o tv, mentre in modo antitetico venivano contemporaneamente violati i diritti fondamentali dei cittadini. Sbarramenti, griglie metalliche e altri dispositivi difensivi parlavano un linguaggio diverso, che poi si trasformò non in ‘trucco’ ma in sangue vero. Senza dubbio il tema del cosiddetto ‘decoro’ e quello dell’italianità sono ancora molto attuali. Queste occupazioni della forza politica attraverso i summit costringono continuamente a chiederci quale spazio è permesso abitare, anche nel quotidiano, quali sono i limiti della nostra agibilità spaziale, con quali intenzioni abitiamo e soprattutto abbiamo il diritto di abitare la città».

Oggi Genova deve guardare al futuro senza dimenticare la propria storia. «Ci sono altri mondi, ma stanno in questo» recita, riprendendo le parole di Paul Eluard, una cartolina della mostra Another World Now, curata da Francesca Guerisoli, Carlotta Pezzolo e Anna Daneri, che attraverserà la città fino al 28 luglio. I movimenti avevano ragione, come ripetono le curatrici.

Il sito della mostra è www.chanarte.com/2021/06/21/another-world-now

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CAT: Genova

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