Quo usque tandem?

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29 Settembre 2017

Parlare della scuola espone a due rischi: essere scambiati per  membri di una setta corporativa che abbia come scopo la difesa a oltranza del proprio operato; essere accusati di “retrotopia”, per usare un termine caro a Bauman, cioè di idealizzazione acritica del passato.

E, invece, non è così.

Noi docenti siamo perfettamente consapevoli che esistono condotte esecrabili, casi macroscopici di inadempienza e esempi eclatanti di incompetenza. E si tratta di fatti concreti, indifendibili, che vanno dalla totale superficialità nello svolgimento del proprio lavoro quotidiano, in classe, all’abuso della legge 104, all’assenteismo ingiustificato. E queste sono disfunzioni imputabili ai singoli.

Poi, ci sono le “macrodisfunzioni”, quelle di sistema: la fragilità degli edifici scolastici, vecchi, poco sicuri, spesso fatiscenti; la mancanza di continuità didattica; il sovraffollamento delle aule (le “classi pollaio”, per intenderci) e la compresenza multipla di insegnanti nella stessa ora e nella stessa classe (il docente curriculare, un paio di insegnanti di sostegno per i diversamente abili, a volte un mediatore linguistico, e per effetto della “buona scuola” anche un potenziatore: una media di 4/5 persone che parlano contemporaneamente ad alunni che per paradosso si ritrovano a chiedere un po’ di silenzio in aula!)

E, infine, gravano sulla scuola, le lungaggini burocratiche degli uffici scolastici: ritardi nelle nomine, a causa dell’effetto domino di trasferimenti, assegnazioni provvisorie, utilizzazioni didattiche, nomina dei supplenti sulle cattedre vacanti e, in attesa dell’individuazione degli “aventi diritto”, nomina dei supplenti dei supplenti!

In ogni caso, è evidente, a farne le spese sono gli studenti, che vengono lesi proprio nel loro diritto fondamentale: il diritto allo studio. E, indirettamente, a pagare – nel senso concreto e non figurato del termine – sono i genitori, che si vedono costretti a compensare le lacune della scuola pubblica ricorrendo a lezioni private.

Ok. Ora andiamo alla ricerca dei colpevoli.

Si dirà: la “buona scuola” ha introdotto il principio meritocratico, ogni dirigente premierà i migliori. Va bene: e dei peggiori cosa farà? Nulla, proprio nulla, al massimo qualche rimprovero, un’occhiataccia, toni minacciosi. Non avrà il coraggio di fare niente, a meno che non ci siano delle evidenze penalmente perseguibili. Ma questa è un’altra storia.

E, poi, chi lo dice che il dirigente premia davvero i migliori, i professori che sanno davvero insegnare? Esaminiamo il controverso comma 129  della legge 107 (mai vista una legge con un solo articolo e un’infinità di commi!) in cui sono elaborati i criteri per l’individuazione del merito.

Il comitato individua i criteri per la valorizzazione dei docenti sulla base:

 a) della qualità dell’insegnamento e del contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica, nonché del successo formativo e scolastico degli studenti;

b) dei risultati ottenuti dal docente o dal gruppo di docenti in relazione al potenziamento delle competenze degli alunni e dell’innovazione didattica e metodologica, nonché della collaborazione alla ricerca didattica, alla documentazione e alla diffusione di buone pratiche didattiche;

c) delle responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico e nella formazione del personale.

I criteri per l’individuazione del merito sono di due tipi: uno è quantificabile, l’altro no.

È, senza dubbio, quantificabile, per esempio, il numero di ore volte al “miglioramento dell’istituzione scolastica” e al “coordinamento organizzativo e didattico”: si tratta di ore spese per collaborare con i dirigenti e si possono contare. Resta, però, un dubbio profondo: che merito didattico è questo? Da qui si misura il valore di un buon insegnante? Si potrebbe parlare, piuttosto di capacità aziendali, di middle management. Ma che c’entra tutto questo con la scuola? Un genitore che deve iscrivere i propri figli in un istituto superiore, lo sceglie perché ci sono insegnanti che sanno fare bene i procacciatori di progetti e gli organizzatori di gite scolastiche o, piuttosto, perché i docenti sono qualificati, colti, umani, insomma, in grado di  insegnare?

Non è, invece, quantificabile l’unica cosa che andrebbe veramente premiata: la capacità didattica. Francamente, come fa un dirigente a valutare la qualità dell’insegnamento di un docente? Passa la vita in classe con lui? Si fida dei commenti dei ragazzi? Origlia dietro le porte? Spia dal buco della serratura?

Insomma, di quale meritocrazia stiamo parlando? È ovvio: nelle scuole italiane sarà meritevole il soggetto (non necessariamente, quindi, un  bravo insegnante) che collabora con il preside, che gli dà sempre ragione, che sa intercettare progetti e fondi, che si fa sfruttare ben oltre il suo orario di lavoro…un po’ come alla corte del Re Sole!

Dunque, la principale colpevole delle disfunzioni scolastiche è proprio la legge sulla “buona scuola” che proclama il principio meritocratico ma non consente, nella prassi, di attuarlo.

Si obietterà ancora: ma non è questo il solo problema, ci sono le classi senza docenti, i ritardi nelle nomine!

È verissimo: perché, allora, c’è da chiedersi, la legge tace su questo punto? Perché si dà per scontato che l’esistente sia immutabile? Perché si accetta passivamente il fatto che “i tempi della scuola sono lunghi”? Chi dovrebbe lamentarsi e agire? I genitori? No, non ne hanno il potere né i mezzi. Tocca ai dirigenti scolastici. Ma non lo fanno, anzi loro incentivano il perdurare di questa lentezza estenuante, al fine di estendere e di far percepire come indispensabile e risolutivo, il principio della chiamata diretta. E su questo punto si potrebbe aprire  un dibattito infinito a partire dai criteri della chiamata diretta: master, seconde lauree, titoli linguistici e non solo, comprati on line presso associazioni parauniversitarie convenzionate con il Miur, al modico prezzo di  svariate centinaia di euro!

Ecco, o ci teniamo i ritardi nelle nomine dei docenti, le classi scoperte e senza continuità didattica oppure ci affidiamo alla chiamata diretta che porterà all’assunzione di gente che ha abbastanza soldi per comprarsi i titoli, con il denaro che ha guadagnato facendo altro nella vita.

Sì, perché questa è l’ulteriore nota dolens della “buona scuola”: l’improvvisazione di molti che si trovano a insegnare per ripiego, per caso, per colpo di fortuna. Avevano fatto domanda di inserimento nelle graduatorie tanti, tanti anni fa. La legge 107, per evitare una “supplentite” che, si è detto, non ha affato estirpato, li ha recuperati dall’oblio. Nel frattempo loro hanno accumulato grande esperienza professionale (chi faceva l’avvocato, chi la parrucchiera, chi lo chef) e ora insegnano: bisognava pur esaurirle queste graduatorie!

E, invece, esauriti sono i tentativi virtuosi di sopportare questo sistema malato.

Quo usque tandem, Miur, abutēre patientia nostra?

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CAT: Governo

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