Seconda stella a sinistra

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27 Novembre 2014

Da un po’ di tempo mi risuona nella mente la canzone di Edoardo Bennato L’isola che non c’è, come un refrain, ogni giorno in momenti diversi e casuali. Non l’ho ascoltata di recente e non la passano quotidianamente alla radio. Eppure ritorna. Porta con sé uno strano senso di inadeguatezza proprio nell’incipit della canzone, «Seconda stella a destra, questo è il cammino […]».  Alla parola “destra” sento un suono stridulo e fastidioso, come quando la puntina si blocca all’improvviso sul vinile. Già, il mio inconscio vuol sostituire “destra” con “sinistra”. È una vicenda bizzarra, mai successa prima, ancora inspiegabile, e che si verifica su un testo che ho sempre sentito molto vicino a me.

Sono nata ben dopo il ‘68, non sono mai stata una rivoluzionaria. Alle manifestazioni liceali contro i finanziamenti pubblici alle scuole private nel 1999 partecipavo riscuotendo però scarsa credibilità da parte dei compagni presenti. Insomma, tirare uova al Collegio San Carlo non mi si confaceva. E neppure bloccare via Rubattino a Milano per chiedere un’altra sede per il nostro liceo, il Linguistico Manzoni, dopo che la struttura era stata dichiarata inagibile dall’Asl. Una volta l’ho fatto e mi hanno subito schedato.

La verità è che sono razionale, mi sono sempre battuta per ciò che è giusto, ma guai a non rispettare le regole! Probabilmente questo si notava. Tanto che se intimamente mi sono sempre sentita di sinistra, fuori questo non era un fatto scontato. Al massimo ero moderatamente ‘rossa’, più riformista che barricadera. Idealista comunque e sempre sì, al 100%. Ecco perché adoro L’isola che non c’è, la terra di utopia dove «non ci son santi né eroi» e neppure ladri né guerre. Un mondo inimmaginabile per chi non sa vedere oltre la punta del proprio naso. Un po’ come l’universo segreto di Walter Mitty, personaggio che mi ha riconciliato con quella parte di me, molto bistrattata ultimamente, poco sollecitata oggi.

Già, perché l’Italia disegnata da questo governo non vuole e non ha bisogno di persone straordinarie come Walter Mitty, il protagonista del film The secret life of Walter Mitty. Del resto, qui si deve cambiare il Paese, non c’è tempo da perdere, bisogna fare le cose, essere pratici, mica sognare. E va bene, che sarà mai, io continuo a sognare, mica avrò paura di sentirmi poco popolare (del resto, è una vita che lo sono). E fin qui la morale non è cambiata. Con buona pace di Matteo Renzi. L’incongruenza, infatti, non è metaforica, ma letterale.

Mi spiego: che ci sia un’isola che non c’è da qualche parte e che noi dobbiamo andarci, pena la pazzia, è lapalissiano (per quelli come me, intendo), quel che non torna e sembra stia sfuggendo di mano è la percezione della realtà.

Seconda stella a sinistra, questo è il cammino da percorrere. E chi si trova? Un milione di persone in una piazza. Che chiedono diritti. Che hanno perso o stanno perdendo il posto di lavoro. Che invocano ascolto, condivisione, rappresentanza. Lo chiedono a gran voce al governo, il quale l’altro ieri ha fatto approvare dalla Camera il Jobs Act che vorrebbe far ripartire il lavoro, rendendolo precario, facilitando i licenziamenti e togliendo i diritti a chi li ha per non garantirli alle nuove leve. Il tutto, naturalmente, senza uno straccio di politica industriale che dia un fortissimo stimolo all’economia italiana, scegliendo, ad esempio, i settori industriali strategici su cui concentrare gli investimenti anche pubblici. Perché mai un imprenditore dovrebbe assumere nuovo personale se non vede, nel medio periodo, reali prospettive di crescita? Questi i dubbi, che all’interno della Camera dei Deputati si sono tradotti in 316 voti favorevoli al Jobs Act, 6 contrari, 5 astenuti e l’opposizione che non ha partecipato al voto. Adesso la palla ritorna al Senato.

Un motivo di più per andare avanti con il dissenso da parte dei sindacati Cgil e Uil che hanno indetto uno sciopero generale nazionale per il 12 dicembre prossimo: “Così non va! Abbiamo proposte concrete per cambiare l’Italia”, si legge sul loro manifesto. Ma molti ormai non credono più alla politica. Lo dice in maniera forte e chiara il dato delle elezioni regionali in Emilia Romagna, Regione storicamente rossa: solo il 37% degli aventi diritto si è recato ai seggi. E allora io credo che quel milione di lavoratori portati in piazza dai sindacati e il 63% di astenuti non siano puri numeri da incasellare nelle statistiche elettorali o delle manifestazioni operaie. Penso che ciascuna di queste persone, presa singolarmente, chieda urgentemente di essere protagonista della propria storia, di avere un peso nelle decisioni politiche. Anche noi siamo chiamati in causa, quelli come me che non hanno vissuto le grandi battaglie per i diritti, ma che ne sono stati i fruitori. Che si sono potuti permettere di studiare all’estero, di costruirsi un curriculum di tutto rispetto, pieno di cultura. E che certo anche loro poco ricevono dal sistema Italia.

Ma che non ci stanno a guardare avanti senza voltarsi indietro, che starebbero male ad affermarsi a scapito di altri o ad accettare le regole, omologandosi, senza poter cambiare lo stato attuale delle cose. Ancora peggio, senza avere nessun motivo per manifestare, semplicemente perché il sistema ha abolito i diritti. Occorre compiere un atto di responsabilità: essere realisti e non solo sognatori. Altrimenti, come un disco rotto, la melodia si interromperebbe sempre nello stesso punto: seconda stella a destra. Perché è a sinistra che bisogna andare, oltre che essere.

Il momento è ora ed è già tardi.

TAG: Jobs Act, Lavoro, politica, sindacati, sinistra italiana
CAT: Governo, Legislazione, Parlamento

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