Cambiare la scuola dal basso: quattro pratiche

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5 Maggio 2015

Non ritengo che sia in atto la distruzione della scuola pubblica, come temono quelli che sono contrari alla riforma denominata, un po’ pomposamente, la Buona Scuola, così come non mi pare che essa possa cambiare significativamente la scuola pubblica. Mi convincerò che è in atto una vera riforma della scuola italiana quando qualcuno proibirà per legge la lezione frontale e il setting attuale con banchi e sedie in fila; fino ad allora, considererò qualsiasi riforma come un aggiustamento – in senso migliorativo o peggiorativo – che non intacca la sostanza della scuola italiana.
In questo articolo vorrei presentare quattro pratiche che possono cambiare profondamente la scuola italiana, intervenendo non su aspetti marginali, ma sul suo cuore in crisi. Quattro pratiche dal basso, con le quali docenti e studenti potrebbero riprendere in mano la scuola pubblica e trasformarla senza aspettare decreti e riforme dell’alto. Prima però vorrei dire ancora qualcosa su ciò che non va nella scuola. Come ho già provato a spiegare in un articolo comparso su questa stessa testata, ritengo che la crisi della scuola italiana (e non solo italiana) sia principalmente una crisi di senso. Perché veniamo a scuola? Perché facciamo scuola? Perché gli studenti impiegano tante ore della loro giornata seduti ad un banco? La risposta a queste domande è oggi sempre più difficile. Una volta il senso della scuola era estrinseco: si studiava per ottenere un diploma da spendere nel mondo del lavoro. Poi è giunta la scuola di massa, con l’inflazione di diplomi e lauree. E allora, perché stiamo a scuola? Per ottenere un diploma che ci consentirà di iscriverci all’università ed ottenere una laurea grazie alla quale potremo aspirare ad un lavoro precario e malpagato? No, la risposta non può essere questa. La risposta dev’essere: perché stare a scuola è sensato; perché a scuola facciamo cose importanti; perché stare a scuola è perfino bello.
E’ evidente che quasi nessuno studente, cui si chiedesse che ne pensa della scuola, risponderebbe che stare a scuola è una cosa sensata, importante e bella. C’è qualcosa che non va. Noi docenti non riusciamo a fare una scuola bella e sensata. E’ solo parzialmente colpa nostra. Non ci riusciamo perché abbiamo ereditato schemi professionali che non funzionano più, e non siamo in un’epoca ed in un contesto sociale granché aperto alle sperimentazioni. Non abbiamo, per dirla tutta, lo slancio necessario per toglierci l’abito vecchio ed ormai liso e provarne uno nuovo. E tuttavia occorre provarci, se non vogliamo che il nonsenso della nostra pratica scolastica quotidiana cresca fino a paralizzarci.
La prima pratica che propongo è la maieutica reciproca. E’ un metodo creato quasi per caso nella Sicilia degli anni Cinquanta da Danilo Dolci, finalizzato allo sviluppo comunitario. Il grande sociologo ed educatore mise in cerchio contadini e pescatori per discutere della situazione locale. Come si può cambiare? Che si può fare? Ognuno diceva la sua, ognuno contribuiva alla soluzione del problema. Ognuno era maieuta dell’altro: la verità non veniva fuori da sé stessi, ma dalla discussione di tutti. Dolci si spese generosamente, negli ultimi anni della sua vita, per diffondere la pratica della maieutica reciproca nelle scuole italiane. Incontrò centinaia di docenti, tenne seminari maieutici in decine di scuole. Era fermamente convinto che quella pratica potesse aiutare a guarire una scuola malata di incomunicabilità. Distingueva, Dolci, il trasmettere, che è unidirezionale, dal comunicare, che è circolare: e riteneva che la scuola avesse il problema di essere trasmissiva, e non comunicativa. Oggi i docenti che praticano la maieutica reciproca in Italia sono pochissimi. Eppure si tratta di una pratica che dà risultati straordinari. Gli studenti prendono la parola, ragionano, e quel che è più importante ragionano insieme. Imparano a confrontare i punti di vista, ad arricchirsi reciprocamente, a scontrarsi anche. Non sono più destinatari passivi della trasmissione di un sapere preconfezionato, ma co-costruttori di un sapere condiviso. E sensato, perché rappresenta la risposta ad una domanda.
La seconda pratica che propongo è quella del service learning, o aprendizaje servicio solidario. La prima espressione è adoperata negli Stati Uniti, la seconda nei paesi dell’America Latina. C’è qualche differenza, perché pedagogicamente il service learning fa riferimento soprattutto a John Dewey ed alla tradizione americana di impegno comunitario non privo però di individualismo, mentre l’aprendizaje servicio solidario si ispira alla pedagogia di Paulo Freire, con la sua passione per la liberazione degli oppressi. Ma l’idea di fondo è la stessa: l’apprendimento che avviene a scuola dev’essere collegato, in modo strutturale e non estemporaneo, a qualche forma di servizio in favore della comunità. Non si tratta di volontariato, perché nel volontariato manca, in genere, il raccordo con lo studio curriculare. Si tratta invece di un modo diverso di concepire lo studio scolastico. La comunità locale ha i suoi problemi, la scuola ha i suoi saperi e le sue pratiche. In che modo questi saperi e queste pratiche possono incontrare i problemi della comunità locale? Quale contributo possono dare gli studenti al miglioramento del quartiere, del paese, della città? L’apprendimento-servizio va al cuore del problema del nonsenso scolastico. Perché studiare? Perché il mio studio può servire a rendere migliore, qui ed ora, la vita di tutti.
La terza pratica che propongo si chiama Student Voice, e per quello che ne so è quasi sconosciuta in Italia, mentre è molto diffusa in molti paesi. Nelle scuole italiane la partecipazione attiva degli studenti ha raggiunto i minimi storici. Strumenti come le assemblee di classe e di istituto si sono ormai svuotati di significato; in molte scuole le assemblee di istituto nemmeno si fanno, in altre durano mezz’ora, e poi tutti a casa. Gli studenti sembrano assolutamente disinteressati alla gestione della scuola, e se da un lato si lamentano di tutte le cose che non vanno, dall’altra non sembrano disposti a muovere un dito per migliorarle (salvo poi scioperare o chiedere l’occupazione). Con l’espressione Student Voice si indicano tutte quelle pratiche con le quali si cerca di ascoltare, appunto, la voce degli studenti, e di fare in modo che sia una voce che ha un suo peso reale nella comunità scolastica. Gli studenti hanno l’impressione che la loro voce non si ascoltata da nessuno: ed in effetti in ambito scolastico subiscono spesso quella che in psicologia si chiama disconferma. Come dire: chi sei tu per parlare? E’ importante che ogni scuola trovi i modi migliori per ridare voce agli studenti. L’empowerment, il conferimento di potere, dovrebbe essere considerato uno degli scopi del lavoro scolastico. Per farlo naturalmente occorre un profondo cambio di mentalità. Chi pensa alla relazione educativa come ad una relazione di dominio non potrà aiutare gli studenti a prendere la parola ed a percepirsi come soggetti attivi di cambiamento. Ma chi pensa alla relazione educativa come una relazione di dominio dovrebbe essere emarginato a scuola, sperando che la specie cui appartiene si estingua al più presto.
Per l’ultima pratica prendo a prestito un’espressione del già citato Paulo Freire: circoli di cultura. E’ una proposta che riguarda i docenti. Noi docenti ci incontriamo periodicamente nei consigli di classe, nei collegi dei docenti, nelle riunioni di dipartimento. L’eccesso di riunioni è una delle cose di cui ci lamentiamo. Eppure in nessuna di queste riunioni abbiamo l’opportunità di riflettere realmente sul nostro lavoro. Discutiamo dell’andamento didattico-disciplinare degli studenti, della gestione della scuola, della programmazione annuale ed individuale. Ma perché facciamo scuola? E’ una domanda di fronte alla quale spesso siamo soli. I circoli di cultura creati da Freire erano dei luoghi dialogici per la formazione degli adulti. Dei circoli di cultura di docenti potrebbero essere le strutture adeguate per l’auto-formazione e l’auto-aggiornamento, per lo scambio di pratiche, per l’arricchimento culturale reciproco, ma anche per riconquistare quello slancio collettivo, quella voglia di smettere il vestito vecchio e provare il nuovo – anche a costo di restare nudi per qualche tempo – senza la quale non ci sarà che la sempre più stanca ripetizione di ciò che da gran tempo ha perso il suo senso.
C’è una cosa che accomuna queste pratiche. Anzi due. La prima è che non costano nulla (anche l’apprendimento-servizio, che negli Stati Uniti è finanziato dal governo, si può fare investendo le sole risorse umane della scuola). La seconda è che riguardano i rapporti, la relazioni umane. Sono fermamente convinto che il punto nevralgico sul quale agire sia questo. La scuola è malata di rapporti falsi, inautentici, asimmetrici, che non fanno crescere. Fino a quando studenti e docenti non diventeranno membri di una comunità di ricerca, aperta al mondo esterno, non si avrà nessuna buona scuola.

Per approfondire

Sul Danilo Dolci e la maieutica reciproca rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012 (si può scaricare qui: http://educazionedemocratica.org/?page_id=2010) ed al libro di Francesco Cappello Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci nella scuola, EMI, Bologna 2011.
Sul service learning si veda: M. N. Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2011 e A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014 (http://educazionedemocratica.org/?p=2777).
Su Student Voice: Aa. Vv., Student Voice. Prospettive internazionali e pratiche emergenti in Italia, a cura di V. Grion e A. Cook-Sather, Guerini e Associati, Milano 2013.

Nell’immagine di copertina: Danilo e Amico Dolci. Foto di Elena Norman.

TAG: Danilo Dolci, Paulo Freire, service learning
CAT: scuola

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