Diritti
Donne ignorate
la battaglia invisibile delle donne con disabilità contro violenza, discriminazione e silenzio
Genova – In Italia, la violenza contro le donne resta una piaga sociale irrisolta. A metà giugno di questo 2025, i dati ufficiali del Ministero dell’Interno parlano chiaro: la violenza di genere in Italia non rallenta, nonostante campagne, leggi e dibattiti pubblici. Tra gennaio e giugno 2025 sono 122 il totale degli omicidi volontari in Italia (gennaio–giugno 2025) e 55 le donne uccise.
Sono 44 i femminicidi riconosciuti, (cioè omicidi in ambito familiare, affettivo, relazionale). 39 sono stati commessi da partner o ex partner, 5 da altri familiari.
Risulta essere un dato che, pur leggermente inferiore rispetto allo stesso periodo del 2024 (49 femminicidi), non segna una svolta strutturale. È vero cioè che si continua a morire nel silenzio, tra le mura di casa, spesso dopo una lunga scia di violenze taciute o sottovalutate.
È noto che solo nel 27% dei casi, la vittima aveva denunciato precedentemente; che nell’80% delle volte, l’autore era conosciuto o convivente. Nulla si sa di quante persone con disabilità siano tra questi numeri. I dati ufficiali non lo rilevano.
Luisella Bosisio Fazzi, attivista storica per i diritti delle persone con disabilità e rappresentante del Forum Italiano sulla Disabilità (FID) presso l’European Disability Forum (EDF), ci invita a guardare oltre le cifre ufficiali: “Il femminicidio è solo l’estremo atto visibile di una lunga catena di violenze. Prima dell’omicidio c’è il controllo, l’isolamento, la svalutazione, la negazione della libertà. Per le donne con disabilità, tutto questo inizia molto prima, spesso dentro le mura di casa o nei servizi che dovrebbero proteggerle”.
Quando a subire violenza sono le donne con disabilità, il silenzio non è solo più profondo: è più radicato, più sistemico, più violento. È una violenza intersezionale, che si consuma nelle case, negli uffici, negli ospedali e perfino nei tribunali. Un intreccio di esclusione, infantilizzazione e controllo che toglie voce, scelta e dignità a chi dovrebbe essere invece al centro delle politiche di tutela.
Marcella Mazzoli, dirigente di AISM, Associazione Italiana Sclerosi Multipla, ci offre una riflessione lucida e scomoda: “Le donne con disabilità non nascono vittime. Lo diventano perché le strutture, le leggi e i servizi non sono pensati per proteggerle.”
“Parlare per noi stesse è un atto politico”
Durante gli Stati Generali della Disabilità a Milano (17 settembre 2024), Luisella Bosisio Fazzi, figura di riferimento per il movimento delle donne con disabilità, ha espresso una verità semplice e radicale: “Non parlo a nome di tutte le donne con disabilità. Vi racconto ciò che loro stesse mi hanno confidato. Perché nella nostra cultura, parlare per sé è essenziale. E invece le donne con disabilità hanno sempre qualcuno che parla per loro”.
La sua denuncia non si è limitata alla retorica: documenta una discriminazione sistemica che si manifesta nella mancanza di dati, nella sterilizzazione forzata, nella negazione della capacità giuridica, nell’esclusione scolastica e lavorativa, nelle campagne di prevenzione inaccessibili. “L’invisibilità è una forma di discriminazione. Non essere viste significa non poter essere”.
La realtà che i numeri (quasi) non raccontano
Nel rapporto ISTAT 2022–2023 “Le molestie: vittime e contesto”, emerge un dato isolato e allarmante: il 16,4% delle donne con disabilità ha subito molestie sessuali sul lavoro, contro il 3,8% degli uomini con disabilità. Un divario di oltre 12 punti percentuali. È un dato importante, sul quale però non esistono nè approndimenti né dettagli. Nessun dato su tipo di disabilità, aggressore, conseguenze o supporti ricevuti.
“Quando mancano i dati– commenta Marcella Mazzoli – , mancano le politiche. E quando mancano le politiche, mancano le tutele. L’assenza nei numeri è una forma di esclusione”.
Anche nel rapporto ISTAT 2021-2022 sul sistema di protezione delle vittime di violenza, le donne con disabilità non sono (nemmeno) menzionate. L’accessibilità dei centri antiviolenza non viene rilevata. Nessuna informazione sull’accesso al numero verde 1522 per chi ha disabilità sensoriali, cognitive o comunicative.
Vero è che attualmente, in Italia non esistono dati ufficiali e completi sull’accessibilità dei centri antiviolenza (CAV) per le donne con disabilità. Tuttavia, alcune fonti autorevoli e indagini parziali offrono indicazioni importanti sul problema: il Report FISH (Progetto VERA 2022), per esempio, rileva come solo il 9% delle donne con disabilità ha ricevuto un supporto considerato “adeguato alla propria condizione”.
Un contributo fondamentale alla comprensione della discriminazione multipla subita dalle donne con disabilità arriva dal Barometro della Sclerosi Multipla, il rapporto annuale curato da AISM per monitorare i diritti e la qualità della vita delle persone con SM.
Il Barometro evidenzia in modo sistematico come la disabilità, intrecciata con il genere, produca ostacoli cumulativi nell’accesso al lavoro, alla salute e all’autonomia personale. Le donne con SM rappresentano il 65% delle persone colpite dalla malattia in Italia, ma restano largamente invisibili nelle statistiche ufficiali che riguardano violenza, lavoro e accesso ai diritti sociali.
Un dato eloquente riguarda l’ambito lavorativo: solo il 44,5% delle donne con SM in età lavorativa ha un’occupazione, contro una media nazionale femminile già bassa (45,8%) e ben lontana da quella maschile (oltre il 64%). Il Barometro denuncia inoltre che oltre il 47% delle donne con SM ha dovuto modificare o ridurre la propria attività lavorativa a causa della malattia, con gravi ripercussioni economiche e sociali.
In ambito sanitario, la mancanza di percorsi specifici orientati al genere fa sì che molte donne con SM non ricevano un’adeguata assistenza nei percorsi ginecologici, riproduttivi e sessuali. L’assenza di dati disaggregati nei sistemi nazionali – come già denunciato nei rapporti Istat – impedisce di fotografare con precisione queste disparità, alimentando un ciclo di esclusione e silenzio istituzionale.
Come sottolinea il Barometro, parlare di discriminazione multipla significa riconoscere che le donne con SM non vivono solo la malattia, ma anche l’invisibilità sociale e la marginalità sistemica, in ogni aspetto della loro esistenza. Solo politiche trasversali, fondate su dati reali e strumenti inclusivi, potranno garantire diritti pienamente esigibili.
Quando la violenza ha il volto di chi si fida di te
Le tipologie di reati contro le donne con disabilità, analizzate dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) – organismo interforze del Dipartimento della Pubblica Sicurezza – confermano un dato allarmante: in moltissimi casi, l’autore della violenza è una persona vicina, che gode della fiducia della vittima. Può trattarsi di un familiare, un amico, un operatore sanitario, un insegnante, un volontario o il caregiver. Una prossimità che rende la violenza ancor più subdola e difficile da denunciare.
Proprio per questo è fondamentale costruire reti solide, inclusive e multidisciplinari, dove le persone possano sentirsi accolte, credute, sostenute. Progetti integrati tra servizi sanitari, sociali e giudiziari possono attivare percorsi di uscita reali, e promuovere una cultura condivisa della prevenzione e della cura.
Una maggiore consapevolezza istituzionale inizia a emergere, soprattutto all’interno delle Forze dell’Ordine e dei Servizi Sociali, dove si stanno diffondendo percorsi formativi dedicati. A testimoniarlo, i dati: il 20% dei Centri antiviolenza (CAV) e delle case rifugio in Italia dispone oggi di personale formato sulla violenza nei confronti delle donne con disabilità. In particolare, la rete D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ha dotato la maggior parte dei suoi centri di strumenti e materiali accessibili per accogliere donne con disabilità motoria, sensoriale e cognitiva.
È un inizio, ma serve fare molto di più. Perché ogni donna deve sentirsi al sicuro nel chiedere aiuto – e deve sapere di trovarlo.
Centri antiviolenza: quando l’accesso è un privilegio, non un diritto
Un altro aspetto drammatico – e poco discusso – riguarda l’inaccessibilità materiale, comunicativa e culturale dei centri antiviolenza (CAV) in Italia per le donne con disabilità.
Secondo il rapporto GREVIO 2020, l’Italia è stata formalmente richiamata per la mancanza di centri realmente accessibili, per l’assenza di dati disaggregati e per la scarsa formazione degli operatori sui bisogni delle donne con disabilità.
La conferma arriva anche dal rapporto FISH (Progetto VERA 2022), secondo cui il il 68% delle donne intervistate ha dichiarato difficoltà di accesso ai CAV, per barriere architettoniche o trasporti inadeguati.
Il 75% delle donne ad essersi rivolte a un CAV ha segnalato gravi ostacoli nella comunicazione: mancanza di interpreti LIS, assenza di materiale informativo accessibile, nessun supporto per disabilità intellettiva o sensoriale.
Solo 9 donne con disabilità su 100 ricevono un supporto adeguato quando chiedono aiuto per uscire dalla violenza. Il restante 91% si scontra con barriere architettoniche, comunicative, culturali o con l’inadeguatezza del sistema stesso.
È una cifra che non rappresenta solo un fallimento dei servizi, ma una vera e propria violazione dei diritti umani.
Quando la disabilità non viene nemmeno rilevata nei dati ufficiali, l’esclusione non è casuale: è sistemica. Nei rapporti ISTAT 2021–2022 non si fa menzione né delle donne con disabilità, né dell’accessibilità dei servizi che dovrebbero proteggerle. Le testimonianze raccolte da AISM confermano quanto la situazione sia scoraggiante: “Ho chiesto aiuto a un centro antiviolenza. Mi hanno detto che ero già seguita dai servizi sociali, e che quindi non era necessario. Ma io non cercavo un servizio: cercavo ascolto, libertà, protezione” (Laura, donna con SM, Milano). Sempre secondo AISM diverse donne con sclerosi multipla hanno raccontato di essere state scoraggiate dall’accedere ai servizi antiviolenza, perché “già seguite dai servizi sociali” o perché “non idonee a partecipare a gruppi di sostegno”.
Sebbene non esista ancora un censimento nazionale sull’accessibilità dei centri antiviolenza, le fonti disponibili mostrano che la maggior parte dei centri non è accessibile in modo adeguato; le donne con disabilità restano ai margini del sistema di protezione; la formazione degli operatori è carente o assente, soprattutto per disabilità complesse.
In assenza di percorsi accessibili e personalizzati, insomma, molte donne con disabilità rinunciano a denunciare, a chiedere aiuto, a uscire dalla violenza.
Con altre parole, le donne con disabilità vivono in un vuoto istituzionale che non le vede, non le ascolta e non le include. Sono sistematicamente escluse dai dati, dalle politiche di genere, dalle campagne di prevenzione e dai servizi di supporto.
I diritti negati nelle istituzioni
Luisella Bosisio Fazzi ha evidenziato con forza come le donne con disabilità siano sistematicamente escluse dalle politiche pubbliche. Questa esclusione si manifesta in molti modi: a partire dalla mancanza di un monitoraggio specifico nei dati sulla violenza di genere, che non rilevano la disabilità tra le variabili considerate.
Anche le campagne di sensibilizzazione risultano in gran parte inaccessibili: mancano sottotitoli, traduzioni in LIS, materiali in linguaggio facile da leggere o in formato Braille, rendendo di fatto invisibili le donne con disabilità nei messaggi pubblici.
L’esclusione prosegue anche sul piano delle analisi strutturali e statistiche: le donne con disabilità sono assenti dagli studi sulle quote rosa, sulle discipline STEM, sulla povertà educativa e sull’occupazione femminile. Ambiti chiave per misurare le disuguaglianze e pianificare azioni correttive, da cui però queste donne restano escluse.
La discriminazione non si ferma qui. Anche nei procedimenti giudiziari, le barriere sono profonde: molte donne con disabilità non possono nemmeno sporgere denuncia, perché private della capacità giuridica. Chi riesce a farlo, si scontra spesso con vittimizzazione secondaria e pregiudizi radicati. Nei tribunali, i loro racconti vengono frequentemente screditati o minimizzati, come se la disabilità rendesse meno attendibili le loro parole.
Uno dei nodi centrali emersi è la totale mancanza di coordinamento tra le politiche di genere e quelle sulla disabilità. Le leggi di genere troppo spesso dimenticano la disabilità; quelle sulla disabilità, a loro volta, ignorano la dimensione di genere. In questo vuoto si perdono le esigenze specifiche delle donne con disabilità, lasciate ai margini di entrambe le agende politiche.
La discriminazione intersezionale – quella che nasce dall’intreccio tra genere, disabilità, condizione economica, età o origine – non trova un riconoscimento sistemico nella normativa italiana. È un’assenza che ha conseguenze concrete: mancano strumenti giuridici, risposte istituzionali e azioni mirate per affrontare la realtà complessa delle discriminazioni multiple.
Sterilizzazione forzata: la violenza sul corpo
In Italia, la sterilizzazione e l’aborto forzato verso donne con disabilità non appartengono al passato. Accadono ancora oggi, in silenzio. Lo conferma il rapporto 2024 dell’European Disability Forum (EDF), che documenta pratiche coercitive ai danni, in particolare, di donne con disabilità intellettive o psicosociali, spesso sottoposte a decisioni mediche e familiari senza il loro consenso libero e informato.
Una delle testimonianze raccolte da un’inchiesta pubblicata su Fanpage.it nel 2022 è tanto breve quanto devastante:
“Non mi hanno mai chiesto nulla. Hanno deciso loro. Mi hanno detto che era per il mio bene”
(Testimonianza anonima, 2022).
Marcella Mazzoli, attivista e dirigente AISM, lo ha ribadito con forza in un’intervista a Vita.it: “È ancora possibile in Italia. E riguarda il presente, non il passato.”
Si tratta di pratiche che violano apertamente i diritti umani fondamentali e che avvengono nell’ombra di un vuoto normativo e culturale, dove la tutela della dignità, dell’autodeterminazione e della salute riproduttiva delle donne con disabilità viene spesso sacrificata in nome di un presunto “bene superiore” deciso da altri.
L’impegno di AISM: cambiare il finale, ogni giorno
Tra le poche realtà italiane a lavorare in modo sistemico sull’intreccio tra disabilità e diritti di genere c’è AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla, che da anni si impegna non solo nella tutela sanitaria, ma anche nella promozione dell’autonomia e dell’autodeterminazione delle donne con SM. AISM ha contribuito ai rapporti ombra presentati al GREVIO, evidenziando le forme specifiche di discriminazione che colpiscono le donne con disabilità. Realizza percorsi di formazione dedicati a operatori sanitari, sociali e forze dell’ordine, per contrastare stereotipi e rendere i servizi più accessibili e inclusivi. Sostiene campagne come “Io scelgo la vita indipendente” e porta avanti progetti di empowerment che mettono al centro la libertà di scelta e la dignità.
Come ha dichiarato Marcella Mazzoli, “Una donna con disabilità che chiede un’assistente per vivere da sola non è un costo. È una persona che rivendica la propria libertà.”
AISM non si limita a denunciare le diseguaglianze: le affronta. Attraverso progetti come LED – Liberare le Energie delle Donne e IDEA – Inclusione, Donne, Empowerment, Autonomia, costruisce risposte concrete e partecipative. Cambia il finale non è solo uno slogan, ma una visione: restituire a ogni donna con disabilità la possibilità di decidere per sé, costruire la propria storia e vivere una vita piena, libera, autodeterminata.
Cambiare il finale, oggi, è possibile. Ma serve il coraggio di ascoltare, includere e agire. AISM lo fa ogni giorno. Il resto spetta alla società. E cioè a ciascuno di noi.
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