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Religione

Il narcisismo del martire, che un giorno voleva sostituirsi a Dio

di David Bidussa
16 Novembre 2014

Moshe Habertal nel suo libro Sul sacrificio (Giuntina), propone di analizzare il tema dell’offerta distinguendo tra età antica e modernità. In Antichità prevale la figura del “sacrificare a”. Una dinamica che si compone di varie figure. Nel racconto di Abele e Caino, il sacrificio è anzitutto un dono-offerta, che può essere accettato o rifiutato da Dio; oppure un segno di obbedienza e lealtà, come nel caso di Abramo con Isacco; o infine un rituale per stabilire e confermare un legame di solidarietà tra il divino e il popolo (i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme). Poi una volta finita la ritualità dell’offerta di sacrificio, anche il concetto di sacrificio muta e trasfigura in quello di “sacrificarsi per”. Quello che conta in questa seconda dimensione è a chi ci si rivolge. Se prima il dialogo era con la divinità, ora il fine sono gli altri umani, la divinità, al più è un mezzo. Anche in questo caso ci sono varie raffigurazioni. Nasce una nuova stagione dell’atto sacrificale che coinvolge molto il nostro presente e che sta nell’immaginario e nelle pratiche dell’ “intransigenza radicale” dell’entusiasmo, sia dell’oppositore irreducibile sia del guerriero contemporaneo. Entrambi si offrono e si propongono come martiri. Entrambi trasformano il loro corpo in oggetto di attenzione. Il primo come limite estremo della propria alterità al potere che lo domina. Il suo messaggio è: il mio corpo è più forte del tuo potere, e io mi riprendo la mia libertà dimostrando che il tuo totalitarismo è fragile. Il secondo mette in campo il proprio corpo come arma di distruzione. Il suo messaggio è: io non solo sono più forte del mio oppressore ma decido della sua vita e della sua morte. Il corpo ha dunque una dimensione di grande rilievo nella pratica che riguarda il “sacrificarsi per” e riguarda la lotta per l’affermazione. Ma c’è una differenza tra queste due figure che riguarda sia la tecnica dell’uso del proprio corpo che la considerazione che essi hanno del proprio corpo. Jan Palach che il 21 gennaio 1969 si dà fuoco a Piazza Venceslao, a Praga, per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia è sicuramente un oppositore irreducibile e usa il suo corpo, ma non coinvolge il corpo degli altri. Rivendicare la libertà per sé, denunciare l’oppressione, non passa per l’uccisione di tutti gli appartenenti, indistintamente, al fronte degli oppressori. Forse da allora è avvenuta una metamorfosi profonda della filosofia di vita, del modo con cui ciascuno guarda a se stesso. Intorno al corpo si è costruita una vera filosofia di vita. La cura di sé, del proprio corpo, è prima di tutto l’impegno profuso contro l’invecchiamento. L’attenzione a se stessi, alla immagine di sé, è una delle manifestazioni in cui prende forma l’idolatria contemporanea. Il guerriero disposto a morire con quanti più nemici possibile, il martire che testimonia della verità sembra la figura più antiretorica, antiupdate di questo nostro tempo, l’irriducibile, il non disposto a cedere all’impero della moda. Ne dubito fortemente. Certo si potrebbe dire che il martire è un uomo a tempo, per il quale il tempo di vita è un tempo corto e la cui attesa di vita è ridotta. E’ un uomo che non ha il problema di invecchiare. Ma la potenza del corpo non per questo non è un suo problema. Il martire prima di tutto deve avere un controllo dei movimenti del suo corpo, soprattutto è uno che ha un fascino smisurato della capacità annichilente, distruttiva della vita degli altri che egli può essere in grado di esprimere attraverso il suo corpo. In altre parole della possibilità e della consapevolezza di possedere la vita e la morte degli altri. Anzi di decidere della vita degli altri attraverso il proprio corpo. La sua auto immagine è essere Dio, anzi forse, più Dio di Dio, visto che nel racconto biblico, c’è un istante in cui il perdono è possibile e in cui chi crede di parlare in nome di Dio si sente tradito da Dio. E’ il dialogo tra Dio e Giona nell’ultimo capitolo del libro di Giona. Un testo che molti interpretano come la storia della fuga dalla responsabilità, ma che a mio parere rappresenta il livello massimo della presunzione di sostituirsi a Dio. Di pensarsi appunto distributori e gestori della vita e, soprattutto, della morte degli altri come segno della scambio che vale la pena sacrificarsi. Altrimenti appunto, meglio fuggire dalla parte opposta.

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