Relazioni

Lettera a Lea Melandri

Ti scrivo non da allievo, né da interprete, ma da uno che ha imparato che il pensiero, se non mette in crisi chi lo produce, diventa arredamento.

15 Dicembre 2025

Carissima Lea Melandri,

Ti scrivo perché il tuo lavoro continua a disturbare, anche ora che molti vorrebbero renderlo innocuo. Citarti senza leggerti. Onorarti senza seguirti. Metterti al riparo, come si fa con ciò che non si vuole più lasciar agire.

Hai insegnato che il corpo non è un capitolo del discorso politico, ma il suo punto di origine. Che il desiderio non è un fatto privato, ma una forza che smaschera le gerarchie, anche quelle che si nascondono nei movimenti di liberazione. Che non esiste emancipazione che non attraversi il conflitto, e che il conflitto non è mai solo esterno.

Il tuo femminismo non ha mai cercato consenso. Non ha promesso salvezze. Non ha offerto identità pronte all’uso. Ha fatto qualcosa di più rischioso. Ha chiesto a ciascuna e a ciascuno di guardare dove il potere passa anche attraverso di sé. Dove la vittima può diventare custode dell’ordine che dice di combattere. Dove la liberazione può trasformarsi in una nuova disciplina.

Ti scrivo perché oggi il linguaggio dell’emancipazione è spesso diventato un linguaggio di gestione. Di ruoli. Di perimetri. Di parole che proteggono più di quanto espongano. E il tuo lavoro, invece, continua a stare dalla parte dell’esposizione. Di ciò che non torna. Di ciò che non si ricompone.

Non hai mai separato il pensiero dalla vita. Non hai mai pensato il politico senza il sessuale, il sociale senza l’inconscio, la storia senza le ferite che lascia nei corpi. Per questo sei difficile da collocare. Per questo non sei comoda. Per questo resti necessaria.

Ti scrivo anche per dirti che non sei una “madre” da celebrare. Sei una donna che ha attraversato il proprio tempo senza chiedere permesso, pagando il prezzo di non semplificare. E che continua, ancora oggi, a indicare una strada stretta, dove non si aderisce, non si obbedisce, non ci si mette al riparo.

In un presente che chiede risposte rapide e appartenenze nette, il tuo pensiero continua a fare una cosa scandalosa. Tiene aperta la domanda. Non per indecisione, ma per fedeltà alla complessità della realtà.

Ti scrivo per questo. Perché resti una voce che non pacifica. Che non consola. Che non assolve.

E perché c’è ancora bisogno di chi non smette di ricordare che la liberazione, se non mette in discussione anche chi la invoca, non è liberazione. È solo un’altra forma di ordine.

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