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Diritti

Storie di emigranti vittime dell’odio razziale nell’America di fine ‘800

di Pasquale Hamel
2 Ottobre 2017

La fine della guerra civile americana, che era costata la vita a ben 700.000 uomini, e la emancipazione degli schiavi neri in forza del XIII emendamento, avevano messo in seria difficoltà le economie degli Stati del sud che si fondavano proprio sulla diffusa pratica dello schiavismo. D’un tratto era venuta meno la manodopera a buon mercato necessaria che aveva permesso la floridezza delle grandi imprese agricole, che segnavano il territorio confederato. Un problema gravissimo a cui diede una soluzione il flusso migratorio che dall’Europa si avviava al nuovo mondo. L’emigrazione italiana, proprio in quegli anni, si aggiunse a quella proveniente, soprattutto, dall’Irlanda, dal Portogallo e da altri paesi meno floridi del vecchio continente.  Molti emigranti raggiunsero la Louisiana, grazie ad accordi sottoscritti dal  governo del Regno d’Italia e da quello americano. Le condizioni di lavoro che venivano offerte ai “dago”, come spregiativamente erano etichettati questi latini considerati a metà strada fra negri e bianchi, furono fin dall’inizio proibitive e non differivano molto rispetto da quelle che, tradizionalmente, erano state riservate agli schiavi neri. Senza diritti e senza tutela erano, praticamente, in balia di padroni violenti che li trattavano in modo indegno.  Alcuni di questi immigrati, soprattutto nella città di New Orleans, erano però riusciti ad organizzarsi inserendosi nel giro della criminalità  dando vita a organizzazioni delinquenziali tipo “mano nera” che controllavano i mercati locali. Questo fatto, aveva accresciuto la diffidenza e l’odio per gli italiani già pesantemente segnati da atti di discriminazione razziale. In questo contesto, non certo esaltante, si iscrivono le due tragiche vicende di cui si è in parte persa memoria e che solo la ripubblicazione del reportage redatto da Giuseppe Prezzolini – che si trovava in America negli anni e in cui avvenivano i fatti che raccontiamo – e del recente pamplhet di Enrico Deaglio, hanno consentito di riesumare. E’ ora, dunque, di raccontare i fatti. Correva l’anno 1890 e, proprio a New Orleans, cadeva sotto i colpi d’arma da fuoco Dave Hennessy, capo della polizia locale, tipo losco che si era intromesso nella lotta di due clan “mafiosi” rivali che si contendevano il controllo del locale mercato ortofrutticolo. Prima di tirare le cuoia, la vittima ebbe il tempo di pronunciare qualche parola che fu utilizzata perché le indagini fossero orientate, senza tentennamenti, su alcuni siciliani. Gli indagati vennero, infatti, immediatamente arrestati e, di lì a poco, sottoposti a processo. Il dibattimento, nonostante le intimidazioni e l’atteggiamento preconcettualmente ostile verso gli imputati, si svolse in maniera corretta e la sentenza, in assenza di prove evidenti, portò al proscioglimento degli accusati. La sentenza non convinse la gente, e la diffusione di voci sulla presunta corruzione dei giudici, ben presto trasformò l’indignazione popolare in desiderio di vendette, magari facendosi giustizia da sé. Così, il 13 marzo 1891, una folla inferocita si radunò minacciosa nei pressi del carcere dove erano ancora richiusi gli imputati. Alcuni, fra i più esaltati, riuscirono a penetrare dentro facendo una vera e propria carneficina fra le urla della folla esultante. Sedici uomini, molti dei quali innocenti, furono allora massacrati per odio razziale. A Tellulah, un piccolo centro quasi sconosciuto della stessa Louisiana si ripeté, a 8 anni di distanza, lo stesso copione della strage di New Orleans . In questo caso, cinque uomini, fra i quali un ragazzo, imparentati fra loro e arrivati qualche anno prima dalla Sicilia – e precisamente da Cefalù – furono linciati dalla folla inferocita aizzata da chi aveva in odio i nuovi arrivati. La scintilla che aveva fatti scattare la terribile e ingiusta vendetta: un fatto banale. Una capra abbandonata che aveva infastidito tale J.Fore Lodge, un medico razzista, che aveva reagito uccidendo l’animale. Alla protesta di Francesco Fatta, il proprietario della capra, il medico si era comportato reagito in modo arrogante scagliandosi con violenza contro il suo interlocutore. Non pago di ciò, poco dopo, era passato, con atteggiamento sprezzante e armato di un grosso revolver, di fronte alla bottega dell’emigrato italiano provocandolo. Nell’alterco che ne era seguito, Lodge aveva fatto uso dell’arma sparando contro Francesco Fatta che era disarmato. Carlo Fatta, che aveva assistito alla scena, era intervenuto In aiuto del fratello, armato di fucili. Ne era nata una sparatoria nel corso della quale il medico aggressore aveva avuto la peggio rimanendo lievemente ferito. Le forse di polizia, prontamente intervenute, avevano arrestato gli italiani traducendoli in prigione in attesa del chiarimento dei fatti. Anche in questo caso, agenti provocatori non si fecero scrupolo di eccitare la folla che, già, parteggiava per il medico. La folla inferocita si radunò attorno al carcere pretendendo di fare giustizia da sé. Al rifiuto, le porte del carcere furono abbattute e i poveretti, inermi finirono in balia alla folla e vennero orrendamente trucidati. Ma la strage non si fermò lì, quella notte del luglio 1899 la stessa folla, sopraffatta da passioni irrazionali ed esaltata dalle menzogne costruite si diede ad una vera e propria caccia all’uomo, raggiungendo altri tre membri della famiglia, uno dei quali era appunto un ragazzo, che non avevano avuto alcuna parte nella storia, massacrandoli. Brutte storie, entrambe, che come molte altre hanno macchiato indelebilmente la storia di quell’America delle libertà e che, senza i libri citati, che le hanno riesumate, sicuramente sarebbero rimaste nell’oblio con la conseguenza che il sacrificio anche di questi innocenti sarebbe stato definitivamente cancellato dalle pagine della storia.

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