Letteratura

Italianità da riscrivere: la letteratura translingue ci riguarda tutti

Dalla marginalità al riconoscimento: perché la letteratura translingue ci costringe a ripensare l’italianità e l’inclusione culturale.

12 Maggio 2025

In vista dei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno, che riportano al centro del dibattito pubblico anche il tema della cittadinanza, è forse il momento di estendere la riflessione a un’altra forma di appartenenza: quella culturale. Se la società italiana si interroga su chi abbia diritto di diventare cittadino da un punto di vista giuridico, resta invece ancora aperta la questione di quanto la società italiana sia pronta ad accogliere, riconoscere e valorizzare voci che esprimono forme di italianità diverse da quelle canoniche. Uno specchio di questa difficoltà è rappresentato dal modo in cui viene trattata, nel dibattito letterario, la cosiddetta letteratura “translingue” – termine coniato dal critico statunitense Steven G. Kallman per designare quegli scrittori che scelgono di adottare una lingua diversa da quella madre come lingua di scrittura.

Seppur meno riconosciuta, la scrittura translingue ha avuto un ruolo crescente nel ridefinire i confini linguistici, culturali e identitari della letteratura europea. Basti pensare alle opere di Samuel Beckett e Eugène Ionesco, rispettivamente irlandese e rumeno, che hanno scelto il francese come lingua letteraria, contribuendo a trasformare i codici del teatro moderno. Anche in Italia, a partire soprattutto dagli anni Novanta, le opere di autori translingui hanno iniziato a manipolare e reinventare l’italiano in modo originale. Basti citare, tra gli altri, nomi come Pap Khouma, Julio Monteiro Martins, e Gezim Hajdari.

Resta il fatto che in Italia la lente attraverso cui si guarda alla letteratura translingue, quando c’è, è spesso ancorata a un paradigma riduttivo: quello della scrittura migrante. Un’etichetta che, pur avendo avuto il merito di aprire il dibattito negli anni Novanta, risulta oggi insufficiente per cogliere la complessità di autrici e autori che operano in una zona di frontiera linguistica e culturale sempre più ibrida. Anzi, questo approccio rischia di ridurre tali figure al ruolo di vittime, alimentando—magari con buone intenzioni—stereotipi oppressivi nei confronti di chi, pur mantenendo un legame con il proprio vissuto migratorio, non desidera esserne imprigionato.

Tra gli esempi più significativi di questo fenomeno si colloca Ornela Vorpsi. Nata a Tirana, formatasi in Italia e residente in Francia, è nota soprattutto al pubblico italiano per Il paese dove non si muore mai, premiato con il Viareggio “Culture europee” e l’Elio Vittorini opera prima. Nonostante questi riconoscimenti, la critica italiana tende ancora a leggerla quasi esclusivamente come autrice “migrante”, riducendo spesso la sua scrittura a una rappresentazione macchiettistica della donna dell’Est e a un’immagine semplificata e arcaica dell’Albania, anche quando le letture si dichiarano progressiste.

Il caso Vorpsi è emblematico di una difficoltà più ampia che riguarda l’intero sistema letterario italiano: la tendenza a leggere la “scrittura migrante” come eccezione, riflettendo una distinzione implicita tra un presunto “italiano originario” e un “altro” da includere ma mai del tutto riconosciuto. Così facendo, si fatica a legittimare forme di italianità non legate al territorio o alla lingua madre, escludendo scritture che, pur provenendo da un altrove, nascono già dentro l’orizzonte culturale del Paese. In confronto al modello francese o inglese—dove la letteratura translingue ha trovato maggiore spazio e una riflessione critica più solida—l’Italia appare ancora distante. La critica francese, seppur in maniera problematica, ha integrato queste voci nella propria tradizione, basti pensare ad Agota Kristof, Andreï Makine, Assia Djebar, Milan Kundera; mentre il Regno Unito ha accolto figure “altre” come Salman Rushdie o Jean Rhys. In Italia, invece, il dibattito sulla cittadinanza culturale è ancora in fase embrionale.

Già nel 2012, Daniela Padoan si era espressa sulla questione, osservando sul Fatto Quotidiano come l’editoria italiana faticasse a riconoscere “la forza narrativa e linguistica” di questi autori, spesso relegandoli in collane speciali o rubriche tematiche, come se la loro scrittura appartenesse a un genere a parte. Oggi, a tredici anni di distanza, si può notare come nel panorama letterario italiano contemporaneo, la scrittura translingue continui a occupare una posizione marginale.

Questa marginalità incide direttamente sulla circolazione e sul riconoscimento del valore letterario di queste opere. Fino al 2020, con Dal tuo terrazzo si vede casa mia di Elvis Malaj, nessun romanzo di un autore translingue era mai entrato nella dozzina del Premio Strega. Anche nelle grandi panoramiche sulla narrativa italiana del secondo Novecento, raramente trovano spazio autori che, pur scrivendo in italiano, portano con sé un bagaglio linguistico e culturale altro, capace di rinnovare in profondità i codici della narrazione.

È quindi urgente ripensare le categorie con cui leggiamo la letteratura italiana, aprendole al translinguismo non come fenomeno di nicchia, ma come parte integrante della sua evoluzione. L’identità letteraria non si costruisce più sulla purezza linguistica, ma sull’attraversamento, sulla contaminazione, sulla moltiplicazione dei punti di vista. Autori e autrici come Ornela Vorpsi, Elvis Malaj, Igiaba Scego e Adrian Bravi dimostrano che la letteratura può trovare nuove energie proprio nel conflitto tra lingue, nell’abbandono della lingua madre, nella ricerca di una lingua altra che dia forma a nuove esperienze.

Ripensare la letteratura translingue significa in fondo anche ripensare il concetto stesso di italianità: senza una sua riconfigurazione, da un lato si rischia di ridurre la cittadinanza a un mero diritto formale, privo di un autentico senso di appartenenza; dall’altro, si continua a coltivare un’idea di italianità rigida, puramente territoriale e monoculturale, scollegata dal contesto sociale e geopolitico contemporaneo. In questo modo, il diritto alla cittadinanza resta fragile, sempre esposto alle oscillazioni del dibattito politico, senza mai diventare patrimonio condiviso.

Non si tratta di includere per dovere politico o morale, ma di riconoscere una trasformazione già in atto. Ripensare alla cittadinanza è giusto, ma, forse, dovremmo cominciare a riflettere anche su ciò che accade dopo, sul piano culturale, quando quella cittadinanza viene finalmente ottenuta.

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