Aforismi inattuali sul mediterraneo
Orientarsi è impossibile e il naufragio è obbligato.
F. Romitelli
Un cortile come tanti, in una città italiana fra le tante. Con l’allure di pantere, sotto l’usbergo del loro Dio – attento a chi viaggia (un Dio attento come il “Nostro”, così come recita il salmo 121, il Canto delle ascensioni: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?/ 2Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra./3Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode[…]”) – si aggirano fra le vie del paese sotto lo sguardo indagatore dei cittadini con “diritto”, non certo per onore o coscienza.
Un passante chiede ad un uno di loro: “Ma se nel tuo paese si presentassero alla frontiera una marea di stranieri cosa faresti?”. Risposta: “Andrei ad informarmi da loro sul perché siano lì”.
Abbiamo perso interesse l’interesse per l’Altro, dello straniero, nel senso cristiano della semantica che aleggia su queste parole.
Sono stato ad un concerto di musica classica contemporanea (come la si chiama oggi), al 23° Festival di Milano Musica, incentrato quest’anno sulla figura di Fausto Romitelli. Il pezzo che ho ascoltato si intitola Mediterraneo I e II (Les idoles du soleil e L’azur des désert, eseguito dall’Ensemble Intercontemporain diretto da Matthias Pintscher, con il mezzosoprano Monica Bacelli, e all’arpa Frédérique Cambreling). Non si capisce nulla (e d’altra parte: cos’è lo spettralismo? Cosa insegna questa scuola musicale? sic!), si odono gabbiani, forse le onde increspate che avanzano con regolarità. Alcuni silenzi provocano lo stesso stordimento di trovarsi nel deserto sotto il sole, come in mare aperto. Il mezzosoprano canta alcuni versi del sommo poeta francese Paul Valery (tratti da La jeune Parque): Je sens sous les rayons frissonner ma statue.
Il riferimento dei titoli al sole e alla luce dei deserti prende, nella musica, un’accezione precisa: è un Mediterraneo anticonvenzionale e controcorrente, dall’atmosfera assai poco accogliente. L’inizio di Mediterraneo II – L’azur des désert – è segnato dall’introduzione della voce che scandisce le parole in stile quasi paratattico (Front limpide, et par ondes ravis) fino a quando si sviluppa la parte strumentale finale concitata e scomposta. Ed è su questa che s’innesta poi, adeguandosi nell’intonazione mossa e nervosa, in crescendo e accelerando, l’ultima sezione vocale (Viens, mon sang, viens rougir). A questo proposito mi giungono come un’eco alcune pagine di C. Cassar sul senso dell’onore nei popoli del mediterraneo che ne arricchiscono il valore dell’intuizione di Romitelli, quindi del senso di attraversare questo mare e la sua storia.
Seduto sulla mia poltroncina della Scala, ascoltando il concerto, ripenso al mio lavoro con i profughi, in un paesino italiano come tanti, e medito su quanto sia straordinario di come l’arte offra al reale la possibilità di elevarsi nel cielo, nell’infinità di senso – mai dato una vota per tutte – del simbolico, del mondo della speranza. Tutti molto belli gli articoli degli aspiranti giornalisti (di cui ce n’è solo pochi esemplari) sulla questione degli immigrati, con tutti quei dati per sfatare i luoghi comuni. Ma le persone sono fatte, e ragionano – nel bene e nel male -, con le emozioni.
Ne L’Eredità del nostro tempo, opera che risale ai Golden Twenties, Ernst Bloch (filosofo le cui letture sono state abbandonate negli anni ottanta dopo la caduta del muro di Berlino) avvertiva gli esponenti comunisti di non parlare solo di numeri e capitale ai poveri piccolo borghesi, operai e contadini, che in cuor loro vivevano ancora imprigionati nel mithos della terra, per evitare di perdere contro la propaganda nazionalsocialista che, da parte sua, non si dimenticava di parlare a persone in carne ed ossa. La storia ha avuto un esito che si ripete nelle piccole sconfitte quotidiane di oggi, con i vari Salvini e grillini. Per ora, tutto ribolle ancora nel sottosuolo.
Luca Servidati
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