L’Argentina dei Default

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10 Giugno 2020

Con il mancato pagamento della prima trance da 502 milioni di dollari, su 65 miliardi che lo Stato doveva ai propri creditori esteri entro il 22 maggio del 2020, l’Argentina rischia il nono default in 200 anni di storia. I negoziati per la ristrutturazione del debito, tra le istituzioni argentine e i creditori privati, sono molto serrati e non concedono grandi spazi di manovra.

 

Cosa è il Default?

Quando parliamo di default facciamo riferimento ad un fallimento. Quando si va in bancarotta? Quando il soggetto in questione è insolvente nei confronti dei propri creditori, perché nella bilancia dei pagamenti le sue uscite superano le entrate.  Chi può fallire? Bene o male tutti! Un’impresa, un Comune, uno Stato. Tutti posso andare in default ma ovviamente le conseguenze sono diverse. Ad esempio, se fallisce un’impresa, a farne le spese saranno i dipendenti ed i fornitori; se fallisce un Comune, interverrà lo Stato che salderà il debito ed i servizi che erano offerti dal Comune proseguiranno. Però, se fallisce uno Stato le conseguenze sono numerose e pesanti. Lo Stato, infatti, non può chiudere i battenti come un’impresa ma deve continuare a svolgere le proprie funzioni. In questo caso, con la dichiarazione di default, lo Stato avrà dunque necessità di svendere i propri titoli e alzare di molto il loro tasso d’interesse. Ciò, ovviamente, renderà poco accattivante l’acquisto di titoli da parte degli investitori stranieri, i quali, seppur il tasso d’interesse sia alto, considereranno il pagamento del loro rendimento insicuro.

 

 

Questa condizione genera una profonda sfiducia nei mercati e rende molto difficile l’accettazione di una richiesta di un prestito. Gli Stati che hanno un debito nei confronti dei mercati di solito chiedono un prestito a diverse organizzazioni, come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o la BCE. Le quali presteranno loro del denaro ad un tasso d’interesse stabilito. Una volta dichiarato il default, che incombe ancora una volta sull’Argentina, lo Stato non sarà più libero di adoperare le proprie politiche economiche e le sue attività verranno monitorate e controllate dal FMI e dai creditori internazionali, molto spesso costringendolo ad attuare politiche molto rigide in materia di spesa pubblica, fino al risanamento totale del debito.

 

Il legame tra crisi e pandemia

 

Il default argentino, diversamente da quello del Libano, non è da imputare in tutto e per tutto alla pandemia Covid-19, ma sicuramente questa ha avuto un ruolo importante. L’Argentina, infatti, è entrata in lockdown il 20 marzo, a differenza di molti altri Stati latinoamericani che hanno ritardato a dichiarare la chiusura dei confini. Questo anticipo da una parte ha ridotto fortemente le morti e i contagi da Covid, ma dall’altra ha causato una forte diminuzione delle esportazioni e delle entrate fiscali, con un conseguente aumento della spesa sanitaria, causando un secondo shock per le casse statali. Lo stesso ministro dell’Economia Argentina, Martin Guzman, intervistato dal Financial Times il maggio scorso, sostenne che il motivo per cui l’Argentina non avrebbe potuto pagare la prima trance di 500 milioni per la ristrutturazione del debito entro il 22 maggio, è l’elevata spesa che lo Stato aveva dovuto affrontare per fronteggiare la pandemia. Inoltre, in base a quanto riporta il Fondo Monetario Internazionale, proprio a causa della pandemia, l’Argentina avrà quest’anno una contrazione del PIL del 5.7%, per poi risalire al 4.4% nel 2021.

 

Non è il primo default

Come è stato scritto precedentemente, questo rischia di essere il nono default in duecento anni di storia e il terzo in soli vent’anni. Sicuramente il default argentino più vivo nella nostra memoria è quello del 2001. In quell’anno il debito dello Stato argentino arrivò a toccare quota 100 miliardi di dollari e provocò uno shock economico in tutta l’America Latina. Il default del 2001 fu figlio delle politiche neoliberiste, portate avanti negli anni ’90, dal presidente argentino Menem. Queste politiche, appunto, prevedevano lo sforamento del deficit di bilancio, bassi tassi d’investimento esteri e anche un non controllo dell’inflazione. Ciò portò a un forte aumento del PIL nell’ultimo decennio del ‘900, ad un aumento delle esportazioni e ad un aumento della spesa pubblica superiore al 35% del PIL.

 

 

Inoltre, attraverso una misura che portava le quotazioni del pesos e del dollaro a un rapporto 1:1, chiamata Ley de convertibilidad, in modo da tenere sotto controllo l’inflazione nel paese, l’Argentina tra il 1990 e il 1995 cominciò a crescere esponenzialmente. Tuttavia la crisi economica messicana del 1995 fece cadere il primo sassolino che causò la frana del default nel 2001.

 

La mossa del Governo Menem

Per non perdere gli investitori stranieri, il governo Menem aumentò di molto i tassi d’interesse dei titoli argentini in modo tale da renderli allettanti ma, ovviamente, fece aumentare esponenzialmente il proprio debito e di conseguenza causò la fuga degli investitori. Inoltre, FMI smise di aiutare economicamente l’Argentina nel 2001, a causa della politica del nuovo governo che bloccava a 250 dollari la quota di prelievo settimanale dei cittadini e, inoltre, impediva il trasferimento di contanti verso l’estero per evitare una fuoriuscita di capitale dal Paese.

 

 

In questo clima di totale instabilità, l’Argentina, nel 2001, fu costretta a dichiarare default. Le conseguenze per il Paese e i suoi cittadini furono devastanti: la disoccupazione salì del 22,5%, l’economia argentina si contrasse dell’11% e la soglia di povertà aumento considerevolmente arrivando a toccare il 57,5% della popolazione. Perché è importante spiegare la crisi del 2001? Perché parte dei 65 miliardi di debito che l’Argentina deve restituire nel 2020, sono stati ereditati dal default del 2001. Però, a differenza del 2001, questa nuova ristrutturazione del debito, che vedremo meglio spiegata nei prossimi capitoli, ha l’appoggio del FMI che cerca di spingere i creditori esteri ad essere più morbidi nell’imporre le proprie condizioni e di venire incontro alle richieste del governo argentino.

 

Le cause delle difficoltà

L’Argentina ha sofferto e continua a soffrire tuttora di quel mal tipicamente sudamericano dell’iperinflazione. Dopo più di trent’anni di governi autoritari e di instabilità politica, il Paese ha cercato la via della democratizzazione a partire dalla fine della dittatura di Videla nel 1983, e da questa è passata anche la ricerca di una stabilizzazione economica. I grandi problemi economici dell’Argentina derivano ancora da quel periodo, e la stessa fiducia degli argentini nei confronti delle istituzioni, politiche ed economiche, è ai minimi storici. Il Paese ha subito fortemente l’influenza statunitense: già durante il regime Videla, il board economico era capeggiato da Milton Friedman, che aveva consigliato di adottare politiche neoliberiste. Questo curioso mix dei caudillos sudamericani che hanno sempre combinato autoritarismo politico e liberismo economico -vedasi Pinochet in Cile, o anche lo stesso Bolsonaro in Brasile – non deve sorprendere.

 

 

Gli Stati Uniti esercitano un controllo indiretto su gran parte del Continente, e questo si è visto soprattutto in materia economica. Il regime di Videla, infatti, aveva cercato di estirpare le istanze peroniste dell’Argentina. Il Paese infatti, ed in generale tutti i partiti politici, sono impregnati di Peronismo, un’ideologica sincretica che traeva gran parte dei propri principi dal fascismo. In economia ciò si è tradotto nel corporativismo e nel controllo statale dell’economia. Il regime di Videla ha invertito questa tendenza, aprendo l’Argentina al mercato globale e alle privatizzazioni di massa. Oggi il 76% del debito argentino è in mano ad investitori stranieri, e gran parte delle grandi compagnie hanno partecipazioni azionarie internazionali. Una situazione simile non può che configurarsi come un cappio per il Paese, incapace di essere sovrano di se stesso e di attuare politiche economiche indipendenti. L’Argentina è largamente dipendente dal dollaro, che è presente nella stessa misura del valuta nazionale, il pesos.

 

Questo spiega infatti perché il Paese abbia arrancato dagli anni ’90 in poi, salvo piccole finestre di benessere. Il tentativo di introdurre una moneta parallela, l’austral, non ha sortito l’effetto sperato ed ha provocato grandi proteste popolari. Gli argentini sono molto legati al dollaro, di cui detengono ampie riserve, e non hanno mai digerito politiche di pesificazione – aumento della circolazione di pesos a discapito dei dollari – o lo stesso austral. Il rating dei titoli argentini è a livelli che vanno da c a d- da decenni, la credibilità finanziaria del Paese stenta a decollare. Si potrebbe anche aprire una discussione sul peso che i voti delle agenzie di rating hanno sull’Argentina e su altri Paesi nel determinarne essi stessi la validità. Il principio degli equilibri multipli ci dice che la speculazione stessa genera il crollo finanziario di un titolo o di un Paese, perché il valore dei titoli diminuisce in relazione al calo di fiducia. In parole povere, è come andare in giro a spaccare vetrine, lamentarsi successivamente delle vetrine spaccate e comprare i negozi colpiti a prezzi ribassati.

 

I punti della negoziazione

Il Governo di Fernàndez ha ereditato dal Governo liberista di Macri un rapporto debito/pil del 93% (rispetto al 50% del 2015), l’inflazione al 50% e un indice di povertà relativa al 40%. In queste condizioni, far fronte alle promesse finanziarie è quasi una missione impossibile. Il 22 maggio l’Argentina non ha onorato i creditori internazionali, con il mancato pagamento di 502 milioni di dollari di interessi bond global. Il Paese è andato quindi in default tecnico: secondo la legislazione finanziaria internazionale, quando non si adempie al pagamento di un grande debito internazionale, si dispone di 3 settimane di tempo per rinegoziare i termini dell’accordo.

 

L’offerta iniziale argentina, respinta dai creditori, contemplava lo scambio di 21 titoli onerosi con altri di durata ventennale, un periodo di grazia triennale fino a fine 2022, con l’inizio del pagamento nel 2023 di interessi dello 0,5% in crescita graduale, “fino a livelli sostenibili”, stimati mediamente nel 2,5%. Questo dopo un taglio del 5,4% del capitale originario e del 64% degli interessi. Le controproposte del creditori, a quanto si è appreso, vertono su una riduzione del periodo di grazia, o di un pagamento di una importante somma ‘una tantum’ durante il triennio, l’aumento dei tassi di interesse medi intorno al 4% e una riduzione della durata dei nuovi titoli.

 

 

Il Fondo Monetario Internazionale ha tutto l’interesse a salvare l’Argentina, dato l’immenso prestito di 44 miliardi – il più alto mai concesso ad un Paese – concesso all’epoca del Governo Macri per pagare gli interessi sul debito. Fitch ha declassato il rating dell’Argentina da c a default, Standard & Poor’s ha portato l’Argentina da cc a d, cioè a una condizione di default. S&P ha anche rivisto al ribasso il rating dei bond Bonar 2024, emessi in dollari ma sotto legislazione argentina. Nonostante le pressioni del FMI, i voti negativi delle agenzie di rating e lo spread a quota 4000 punti, si respira in generale un clima di maggiore ottimismo rispetto al default del 2001, l’Argentina è più solida e più preparata a far fronte alla crisi.

 

Il Presidente Fernàndez ha sospeso per tutto il 2020 il pagamento delle scadenze dei bond emessi – nello specifico i titoli in dollari denominati Bonar e Discount – sotto legislazione nazionale, per un totale di 9,8miliardi di dollari. L’obiettivo è di recuperare la sostenibilità del debito, che, unito al focus del Governo sulle esportazioni – in una politica di rafforzamento dell’amicizia con il Messico e di distensione con il Brasile, principali partner commerciali – dovrebbe rilanciare l’economia nazionale. Posticipare di un anno i pagamenti degli interessi sul debito è, in gergo, defaul selettivo, ovvero fallimento posticipato. Ma in questo contesto potrebbe essere interpretato come una mossa negoziale nei confronti del Fondo Monetario Internazionale.

 

Uno strazio senza fine
La rinegoziazione del debito con i creditori internazionali è stata l’ennesima umiliazione di un Paese come l’Argentina, che da decenni sembra non trovare la soluzione alla propria agonia economica. Sicuramente le speculazioni internazionali e l’ingerenza statunitense nel Paese non hanno giovato al Paese, con una fortissima tradizione peronista. Nessuno sa come andranno a finire le negoziazioni e se effettivamente si andrà in default. L’impressione è che anche se si dovesse scongiurare questa ipotesi, ad attendere l’Argentina difficilmente ci sarà un periodo di prosperità economica, ed il Covid-19 è stato solo l’ennesima mazzata.

 

 

La rinascita dell’Argentina non è solo questione nazionale, è una questione globale: l’Argentina è una Grecia sudamericana, strozzata dai creditori ed impossibilitata a crescere. Urge una riflessione sul sistema economico internazionale e sulla legislazione creditizia. Non possiamo replicare casi simili, Paesi lacerati da debiti contratti con investitori stranieri. Se è vero che la corruzione e la cattiva spesa pubblica sono problemi seri in Argentina, è altrettanto vero che non può essere tutto ridotto a questo, ad una colpevolizzazione della popolazione e della classe dirigente simile a quella fatta alla Grecia. Dal negoziato tra creditori e Argentina, o uscirà un Paese in rovina, oppure nascerà un nuovo, decisivo paradigma economico del benessere e della solidarietà, un modello globale di società.

 

 

Manuel Ferrara

Massimiliano Garavalli

 

 

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CAT: America

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