USA 2016, lo spettro di Bengasi torna a tormentare Hillary

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9 Luglio 2015

Sono ore di fuoco per Hillary Clinton. La bufera mediatica e politica sulla questione delle email si è difatti riaccesa proprio ieri più virulenta che mai, determinando un ostacolo non di poco conto per una campagna elettorale, sino ad oggi dimostratasi indubbiamente efficace. Una questione spinosa e complicata che affonda le sue radici nel periodo della guerra in Libia.

L’11 settembre del 2012, in un attacco terroristico avvenuto nella città di Bengasi, perdono la vita quattro cittadini americani, tra cui l’ambasciatore statunitense, J. C. Stevens. Data la gravità della situazione (erano anni che un diplomatico americano non rimaneva ucciso) e la confusione che ne scaturisce, subito esplode una fitta polemica che investe la Casa Bianca e – soprattutto – la stessa Hillary Clinton, allora Segretario di Stato. Una polemica che per due anni si protrae tra accuse e veleni: fin quando, nel maggio del 2014, viene istituita –  su proposta repubblicana – una commissione senatoriale che si incarica di far luce sulla vicenda.

E’ in seno alle indagini della commissione che iniziano ad emergere i primi guai per Hillary: un cospicuo numero di email scritte e scambiate dall’allora segretario di Stato (proprio nel periodo interessato) non sono più reperibili. Anche perché sembra che durante il suo mandato amministrativo, la Clinton abbia fatto ampio ricorso all’account mail personale, contravvenendo così all’obbligo di utilizzare soltanto quello governativo (per motivi di sicurezza e trasparenza).

Improvvisamente all’inizio della scorsa primavera il “New York Times” diffonde la notizia e un vero e proprio polverone mediatico investe una Hillary Clinton in procinto di candidarsi ufficialmente alle primarie democratiche del 2016. Per settimane la stampa americana (e anche europea) si concentra sulla questione.

Le reazioni della Clinton lasciano a dir poco perplessi. Dapprima sceglie di non replicare, trincerandosi dietro una raffica di no comment. Poi, rompe il silenzio e inizia ad abbozzare una linea difensiva timida e incerta, con il solo risultato di alimentare ancor più le critiche a suo detrimento. Un comportamento molto strano: sintomo di colpevolezza per i nemici, strategia attendista per i supporter.

Tra maggio e giugno, la svolta. Pur rifiutandosi di affrontare direttamente la questione, Hillary decide di contrattaccare sul piano politico. Avvia così una strategia comunicativa efficace: mira a presentarsi come un’americana qualunque e attua al contempo una serie di svolte programmatiche, strizzando sempre più l’occhio all’elettorato democrat di sinistra. Una strategia che celebra il suo trionfo a metà giugno, in occasione del discorso tenuto a Roosevelt Island: un discorso potente, che la fa risalire in quei sondaggi che sino a pochissimi giorni prima la davano in caduta libera. Un discorso che sembra finalmente seppellire tutte le passate polemiche sotto la forza dell’idealismo politico, distogliendo l’attenzione dalla questione delle email e dagli scandali ad essa connessi (come il problema dei finanziamenti alla Clinton Foundation). Una riscossa in grande stile. Una marcia trionfale che non sembrava conoscere ostacoli. Fino a ieri.

Martedì sera Hillary rilascia la prima intervista nazionale della sua attuale campagna elettorale alla CNN. Probabilmente spera di parlare soltanto di politica e delle sue svolte programmatiche umanitarie (dal razzismo, al gun control, passando per il same sex marriage). Ma le cose vanno diversamente: la giornalista, Brianna Keilar, la interroga difatti proprio sulla questione delle email. Incalzata, la Clinton replica asserendo di non aver infranto nessuna regola, di essersi sempre comportata secondo la legge e che niente la obbligasse a mantenere le email risalenti al suo mandato.

Aggiunge inoltre che il fatto di aver recentemente consegnato cinquantacinquemila delle proprie email al Dipartimento di Stato, sia il frutto di una pura e libera scelta personale. Non foss’altro – conclude  – che non le sarebbe mai pervenuta una richiesta formale di presentare quei documenti da parte di un tribunale o di un organo governativo. Anzi, dichiara esplicitamente: “I’ve never had a subpoena”. Laddove, per “subpoena” nel diritto americano si intende il potere riservato a un tribunale di obbligare un testimone a produrre una determinata documentazione.

Sennonché, sembra che le cose non stiano esattamente così. E mercoledì quella bufera che sembrava ormai sopita da giugno si è riaccesa vigorosamente. Il presidente della “Commissione Bengasi”, il repubblicano Trey Gowday, ha platealmente smentito le dichiarazioni della Clinton, affermando che  la Commissione ha in realtà formalmente da tempo richiesto che l’ex Segretario di Stato consegnasse tutte le email inerenti alla questione libica. Nella fattispecie, il New York Times riporta oggi il documento di “subpoena”, datato 13 marzo 2015, in cui la Commissione richiede esplicitamente tutte le mail prodotte da Hillary riguardanti:

1)      Libya (including but not limited to Benghazi and Tripoli)

2)      Weapons located and found in, imported or brought into, exported or removed from Libya

3)      The attacks on U.S. facilities in Benghazi, Libya on September 11, 2012

4)      Statements pertaining to the attacks on U.S. facilities in Benghazi

Gowday ha inoltre sostenuto di non aver voluto rendere pubblica la richiesta sino ad oggi  per tutelare la Clinton ma di essersi visto costretto a farlo, dopo le sue false dichiarazioni alla CNN.

I repubblicani non hanno perso tempo e – guidati dallo speaker John Boehner – hanno iniziato ad attaccare duramente l’ex first lady. Il fronte democratico, dal canto suo, difende Hillary, accusando il GOP  di strumentalizzare la vicenda e Gowday di essere mosso da mire ideologiche e disonestà intellettuale.

Come che sia, il punto decisivo della questione adesso è uno soltanto. Non è Bengasi, non sono le email, né le commissioni o le presunte persecuzioni politiche: il punto è che Hillary ha mentito. Ha pubblicamente dichiarato di non aver ricevuto alcuna forma di “subpoena” quando un documento – nero su bianco – dimostra oggi l’esatto contrario. Ha mentito. Ed è noto cosa significhi mentire per un politico in America. Ne sa qualcosa Bill Clinton, che si salvò in extremis dall’impeachment solo perché ammise pubblicamente  di aver dichiarato il falso sulla sua relazione con Monica Lewisnky. E non sarà allora un caso che Hillary si sia affrettata a dire di essere stata fraintesa durante l’intervista alla CNN. Perché sa di aver commesso un errore. Un madornale errore che potrebbe compromettere una campagna elettorale sino ad oggi condotta egregiamente.

E’ arrivato il momento di vedere la tempra e l’abilità di Hillary. Se il GOP saprà giocare bene le sue carte, potrebbe difatti infliggerle un colpo fatale, disarcionandola. Bisognerà capire se la principessa del popolo saprà reagire, restando in sella. Se sarà in grado di volgere lo svantaggio in suo favore. Se saprà dimostrare vera grinta politica, insomma. Oppure se sarà destinata a crollare sotto il peso degli scandali e delle incongruenze. Un fragile gigante dai piedi d’argilla.

 

 

 

 

 

 

 

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CAT: America

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