La pena infinita

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12 Settembre 2015

In questi giorni si è accesa la polemica circa l’opportunità di permettere a un ex detenuto, dopo avere scontato la pena per omicidio colposo, di assumere il ruolo a tempo indeterminato di insegnante in una scuola superiore. Al di là delle reazione dei familiari – tutte comprensibilissime e probabilmente condivisibili se fossimo nei loro panni, vittime di un assassinio odioso e gratuito – questa vicenda, velocemente esauritasi per la rinuncia del neo assunto all’incarico, ci insegna molto circa il rapporto controverso che abbiamo con la giustizia. E in particolare con la struttura che ne costituisce l’applicazione concreta, ovvero il carcere.

In Italia quest’ultimo è inteso come una struttura punitiva e non rieducativa, un luogo in cui scontare la pena (il vocabolo dice tutto) nella sofferenza e non nell’auspicio di una possibile “redenzione” del detenuto. Un girone infernale simile a quello in cui il reo ha fatto piombare la famiglia della sua vittima e che, per questo motivo, dovrebbe seguirlo ben oltre la sua permanenza nella casa circondariale. Una sorta di occhio per occhio che con la società di diritto non ha nulla a che fare, ma che fa riemergere prepotentemente il nostro disagio verso qualsiasi forma di educazione e rieducazione.

Qualcuno forse ricorderà lo scherno con cui molti politici italiani irrisero le autorità norvegesi perché rinchiusero il pluriomicida Breivik in una cella che “sembrava una camera di albergo”, ovvero pulita, non sovraffollata e (scandalo degli scandali) dotata di televisione. L’idea che un uomo possa essere trattato come tale, nonostante i suoi crimini, ci risulta spesso incomprensibile.

Questo fenomeno ha un’immediata traduzione spaziale nei penitenziari italiani, talmente vetusti e sovraffollati che la corte la Corte Europea dei Diritti Umani, nel gennaio 2013, ha condannato l’Italia perché ai detenuti era destinato la metà dello spazio vitale previsto. Ovvero tre metri quadri a persona invece di sette (dimensione minima prescritta che prevede il letto e lo spazio per la deambulazione). In queste condizioni appare evidente che la finalità rieducativa della detenzione non può essere minimamente perseguita, anzi.

Il piano carceri, tanto promesso e sbandierato dai vari ministri della giustizia che in questi anni si sono susseguiti, latita (se ne lamenta persino il corpo di Polizia Penitenziaria) e le celle continuano a riempirsi all’inverosimile senza che nessuno faccia alcunché. Anzi, parlarne è considerato inopportuno e poco conveniente a tutti i livelli.

Ricordo quando, qualche anno fa, seguii la tesi di due bravi studenti e il direttore del corso di laurea li sconsigliò caldamente di proseguire con quel tema poco interessante per l’accademia. Il tema era, appunto, lo studio per una nuova casa di reclusione. Fortunatamente la riflessione circa la necessità di sviluppare nuove modalità e tipologie di detenzione sta alimentandosi di contributi provenienti da università, associazioni e concorsi di progettazione.

Un anno fa al Politecnico di Milano è stata presentata una ricerca riguardante la possibilità di recuperare i borghi abbandonati – è notizia recente che in Italia ci siano 6000 paesi in abbandono – per trasformarli in “penitenziari diffusi” affinché i reclusi possano provare a re-inserirsi in un ambiente più simile all’ambiente che li aspetta dopo invece che trascorrere la condanna in una gabbia per galline. E al di là delle proposte visionarie – visibili qui e qui – non è più raro vedere all’estero carceri che qui in Italia sarebbero impensabili. Almeno fino a quando non riusciremo a capire che lo stato di chi sta “dentro” potrebbe fattivamente contribuire a rendere migliore il mondo “fuori”. E che forse, una volta scontata la pena, una persona possa essere cambiata.

 

 

In copertina, Stefania Virgilio, Francesco Fabris, Progetto di una casa di (re)inclusione a Udine, 2012

TAG: #architettura, carceri, Corte europea dei diritti umani
CAT: Architettura e urbanistica, Giustizia

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