Economia e Climate Change: sfide e opportunità per gli anni a venire

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4 Novembre 2014

Lo scorso primo novembre l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, il più influente think tank al mondo in materia di cambiamento climatico, ha pubblicato una versione di sintesi del suo quinto report – opera colossale, frutto del lavoro di centinaia di esperti – divulgato lo scorso maggio. Oltre a ribadire senza ombra di dubbio che il cambiamento climatico (e in particolare il suo sintomo più conosciuto, il global warming) é causato dalle attività umane, il report s’interroga su come fare per evitare un aumento delle temperature medie globali oltre la soglia dei due gradi centigradi, il target che le Nazioni Unite hanno fissato ormai da due decenni per cercare almeno di limitare i danni connessi al riscaldamento globale – innalzamento del livello del mare (e città costiere destinate a sprofondare), scioglimento dei ghiacciai, aumento della siccità i più noti. Uno scenario business as usual ci condannerebbe infatti ad aumenti fra i 3.7°C e i 4.8°C, con tutta una serie di conseguenze devastanti sul pianeta e su chi lo abita (potete farvene un’idea guardando il video della Banca Mondiale in fondo alla pagina).

Una riduzione delle emissioni di gas serra é dunque una questione di primaria importanza, anche perché, come annota l’IPCC, più tempo lasciamo passare senza intervenire per invertire la rotta, più costoso in termini economici e umani sarà cercare di rimanere sotto i 2°C. Anche se riuscissimo nel tentativo, i costi complessivi per tenersi al di sotto della soglia sarebbero comunque dell’ordine dello 0.5%-2% del PIL globale entro il 2050 (il che per molti é un’approssimazione assai conservativa). In caso contrario, sarebbero probabilmente incalcolabili.

Un mese e mezzo fa usciva un altro report molto interessante, “The New Climate Economy”, opera di una commissione composta da istituti di ricerca e università di primaria importanza, dalla London School of Economics alla Climate Policy Initiative . Partendo dai risultati del quinto report dell’IPCC, The New Climate Economy analizza nel dettaglio quali misure possono essere adottate per rendere il passaggio ad un’economia più sostenibile più repentino e più redditizio. Se ben orchestrati – questa la tesi principale del rapporto – gli investimenti pubblici e privati nell’ambito delle infrastrutture, dell’efficienza energetica e delle energie pulite, sarebbero di poco più onerosi rispetto ai loro corrispettivi ad alto impatto inquinante (si parla di cifre elevatissime: 93 trilioni di dollari contro 89, per un PIL mondiale calcolato a 84 trilioni nel 2012, a parità di potere d’acquisto). I costi di lungo termine, invece, sarebbero ovviamente molto inferiori, per non parlare delle possibilità di trarre profitto da questo passaggio, ancora tutte da sfruttare. A detta del report viviamo dunque in un momento di sfide ed opportunità: i prossimi 15 anni saranno cruciali per definire il destino del pianeta da qui al 2100.

Ma come fare per accumulare risorse cosi’ ingenti? Qua sta per l’appunto il nocciolo della questione, considerando il numero elevato di barriere contro le quali ci si deve ancora scontrare, sia a livello politico, che economico. A livello mondiale, nel 2013 i sussidi alle energie pulite assommavano a 90 miliardi di dollari, contro i 600 riservati ai combustibili fossili. Le spese di ricerca e sviluppo dedicate dai governi dei paesi EU ai settori dell’efficienza energetica sono calati del 32% rispetto ai livelli del 1980. Idem é avvenuto negli Stati Uniti, dove gli 1.8 miliardi di dollari investiti annualmente in ricerca energetica (pulita o meno) sono puntualmente surclassati da quelli nella sanità e nella difesa. Nonostante il report elenchi una serie di dati e iniziative che dovrebbero gettare una luce positiva sui trend in corso – dai nuovi strumenti finanziari come gli yield-co e i green bond , al crollo dei costi di produzione dell’energia solare, dai vari esempi di trasporti urbani sostenibili al Local Warming – due sono principalmente le sfide da affrontare, su cui poco o nulla ancora é stato fatto.

In primis, priorità di questi gruppi di ricerca sarebbe quella di dimostrare al settore privato, e alle grandi multinazionali innanzitutto, che questa conversione a pratiche sostenibili nient’altro é che un affare, e che puo’ generare ghiotti profitti di lungo periodo, riducendo al contempo parte dei costi che caratterizzano le loro supply chain. Unilever per esempio ha recentemente annunciato che intende dotarsi di una filiera totalmente eco-friendly, servendosi di materie prime estratte in modo del tutto sostenibile, riconoscendo apertamente che alla lunga questo diminuirebbe i suoi costi d’approvvigionamento, ed ha emesso 415 milioni in green bond per finanziare progetti tesi a ridurre le emissioni di carbonio . Walmart ha dichiarato che intende alimentare i propri punti vendita servendosi solo di energie rinnovabili entro il 2020. Altre compagnie all’avanguardia, come Tesla Motors del visionario Elon Musk o SolarCity di suo cugino Lyndon Rive, fanno da sempre della sostenibilità la loro mission fondante. Il problema sta semmai nel trovare la maniera di fare “i conti in tasca” alle altre aziende, cercando di mettere in luce i (ridotti) costi e i benefici di un passaggio ad attività sostenibili. Uno sforzo del genere é stato finora praticamente assente, e si registra solo il contributo, peraltro encomiabile, del Carbon Disclosure Project di calcolare quante emissioni ciascuna azienda produce lungo la propria supply chain (qui l’ultimo report).

Occorre insistere sul settore privato perché i governi da soli non possono svolgere la parte del leone. Tolti i casi di chi sta peggiorando invece di migliorare (come l’Australia), i governi dei vari paesi o sono “squattrinati” o si trovano di fronte ad altre priorità, come ad esempio finanziare il proprio sviluppo, che distolgono risorse dai settori qui presi in analisi. Tuttavia, e qui sta il nodo cruciale, molti paesi in via di sviluppo rischiano di portare avanti politiche distorte, creando sistemi di infrastrutture caotici e inadatti ad affrontare la sfida dell’accresciuta urbanizzazione – si stima che nel 2050 l’80% della popolazione mondiale vivrà in città, città che già oggi generano l’80% del PIL mondiale e il 70% delle emissioni. Quest’ultimo punto, unito al fatto che proprio questi paesi subiranno la gran parte dell’aumento della popolazione da qui a metà del secolo (+2.1 miliardi di persone), potrebbe causare condizioni di vita insostenibili, con livelli d’inquinamento e morti precoci da incubo, peggiorando ancora di più la situazione delle fasce più povere della popolazione.

Servirebbe dunque una serie di partnership strutturate con aziende, organismi multilaterali come le varie agenzie delle Nazioni Unite, e, in ultima analisi, con gran parte della società civile, ma proprio qui si registra il secondo punto dolente che prendero’ in analisi. Se tutti sono chiamati ad intervenire nel proprio piccolo a contribuire al cambiamento, come sostengono pressoché tutti gli istituti di ricerca sopra citati, é anche vero che in gran parte del mondo la consapevolezza riguardo queste problematiche rasenta lo zero, e che i suddetti report restano tristemente staccati dal quotidiano dei più, che ne ignorano totalmente l’esistenza. L’utilizzo dei nuovi media in rapporto al climate change é ancora assai limitato, e se é vero che vengono prodotte pregevoli infografiche come queste del World Resources Institute, l’uso di app, open sourcing ecc. é ancora deficitario, il che apre notevoli opportunità di business per chi avesse voglia di mettersi in gioco. Il tutto é unito al fatto che le tematiche relative all’ambiente spesso sono totalmente assenti dai programmi delle scuole, o vengono affrontate in modo superficiale (anche perché gli insegnanti in primis ne sanno poco). Educare i cittadini di domani, cosi’ come investire nel cambiare le abitudini delle generazioni più anziane, per quanto possibile, accrescerebbe gli interessi in gioco, e quindi anche le opportunità di profitto per le grandi aziende.

E in Italia? Come al solito, nel nostro piccolo, siamo all’avanguardia, soprattutto nei settori dell’architettura e del design. Progetti come Warka Water o Build a Change ci hanno già meritatamente resi noti all’estero, cosi’ come la recente inclusione del Bosco Verticale nella top 5 dell’International Highrise Award 2014, la classifica dei migliori edifici eco-sostenibili costruiti ogni anno in giro per il mondo. Molte sono le opportunità future, e i nostri cervelli, fuggiti o meno, sono in pole position per riuscire a sfruttarle al meglio, per accrescere il benessere di tutti. Speriamo che i nostri governanti, per una volta, non mettano loro i bastoni fra le ruote….

 

TAG:
CAT: Architettura e urbanistica, Innovazione, Inquinamento, tutela del territorio

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