Terrore, libertà, convivenza: note a proposito di New Jersey e spazio pubblico

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31 Agosto 2017

C’è una cosa che colpisce della recente ondata di attacchi terroristici jihadisti a partire da Charlie Hebdo nel Gennaio 2015 fino a Barcellona pochi giorni fa: sotto scacco sono chiaramente ed evidentemente le città europee. L’ondata di terrore e morte investe quei luoghi che in diverse forme e a diverse scale incarnano i valori sui quali la cultura europea dice di fondarsi e attraverso i quali si rappresenta: la libertà, l’uguaglianza, la democrazia. Piazze, bar, discoteche, strade affollate, stadi, redazioni, a ben guardare ciò che realmente è sotto attacco è l’apertura e l’imprevedibilità dello spazio della vita pubblica. Sotto attacco è la città europea come spazio della convivenza e del confronto fra mondi diversi, come ‘groviglio di traiettorie simultanee’, usando le parole di Doreen Massey, tutte legittime, tutte libere di esprimersi.

 

Già ma che fare quando una di queste voci, (il cui disagio forse per  troppo tempo non siamo stati capaci o non abbiamo voluto ascoltare?) diventa non solo aggressiva, ma portatrice di terrore e morte? Come mantenere l’apertura, la libertà, l’imprevedibilità che costituisce il dna profondo del nostro essere cittadini di fronte a una minaccia del genere? Come dovrebbe reagire una società tollerante all’uso della violenza per affermare il proprio credo religioso e politico?

 

Ed ecco che di colpo riaffiora in Europa con atroce violenza, dopo quasi un ventennio di relativa quiete, la dimensione del conflitto urbano. A dir il vero il conflitto resta sempre una condizione latente e forse l’aggressività verso il prossimo, se ascoltiamo la tesi di Yuval Harari, è uno dei caratteri distintivi della nostra specie che ne hanno segnato il successo a livello evolutivo, ma la magnitudine e la rilevanza di scala globale che il fenomeno sta assumendo in questi ultimi anni non si vedeva sul territorio europeo almeno dai tempi del G8 di Genova nel 2001 e prima di allora dalla caduta del muro di Berlino e dal conseguente crollo dei regimi comunisti a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90.

 

Dopo il crollo delle ideologie, dopo internet e la globalizzazione, dopo la smaterializzazione e la ‘liquefazione’ di tutto ciò che era solido e unitario, vorrei ci soffermassimo brevemente a riflettere su come stia cambiando la forma e il significato del muro. Nella storia, come nella migliore tradizione delle distopie più o meno fantascientifiche, un muro separa nettamente ‘noi’ da ‘loro’: i buoni di qua e i cattivi di là, protegge lo spazio dei buoni, dei giusti, dallo spazio dei cattivi, dei nemici. E’ questa l’essenza del muro, del confine, a qualsiasi latitudine in qualsiasi epoca, spazio e contenuto coincidono chiaramente. E’ successo a Berlino fra capitalisti e comunisti, a Cipro fra greci e turchi, sta succedendo in Israele fra israeliani e palestinesi, potrebbe ancora succedere (ma confidiamo il mondo si risvegli prima di cadere nel baratro) fra Stati Uniti e Messico. In qualunque epoca e a qualsiasi latitudine alzare un muro, sia esso materiale o immateriale, significa proteggere gli ‘uni’ (chi li alza) dagli ‘altri’ (il nemico o i nemici).

 

Ma chi sono questi ‘altri’ da cui proteggerci? Oggi, ai tempi degli attacchi terroristici kamikaze, questi ‘altri’ sono ragazzi poco più che ventenni, spessissimo nati e cresciuti nelle nostre stesse città europee, nel ventre della nostra stessa società ‘libera, aperta e democratica’ di cui evidentemente non si sono mai sentiti parte. Hanno abitato le stesse città che abitiamo noi, così vicini eppure così distanti, le loro voci sono rimaste inascoltate, lasciando invece che la loro fragilità venisse risucchiata da radicali promesse di riscatto imbevute di fanatismo e ideologia. Così vediamo la nostra società ‘libera, aperta e democratica’ mostrare il fianco: qualcosa deve essere andato profondamente storto nel nostro modello di democrazia, in particolare nelle politiche dell’integrazione, se una considerevole quantità di giovani, perlopiù seconde o terze generazioni, sono pronti a farsi esplodere pur di provocare la maggior perdita di vite umane possibile. (E sinceramente le recenti notizie che arrivano da Piazza Indipendenza a Roma, e qualche mese prima dalla Stazione Centrale di Milano, e quasi ogni giorno da Lampedusa e dagli altri porti migranti del Mediterraneo non fanno ben sperare!). Come giustamente fa notare Luca Marullo, “questi cosiddetti terroristi non sono a migliaia di km di distanza da noi, ma a Maciachini magari. Se i loro figli potessero sul serio avere un confronto con le nostre città e i loro abitanti, tutti, probabilmente un domani non vorranno scagliarsi contro un loro simile utilizzando un furgone. Il problema sta proprio nel momento in cui si pensa che l’altro non sia un proprio simile, perché in effetti non lo è”.

 

Ed ecco che il conflitto esplode, atroce, imprevedibile (?), in forma debole e diffusa nel cuore delle nostre città, colpendone il ventre molle, la linfa vitale, lo spazio, simbolico e non, della libertà e della vita pubblica dalla quale ‘loro’ sono stati sistematicamente esclusi pur facendone parte. Un terrorismo debole e diffuso nella forma che sottende un’ideologia invece nient’affatto debole, piuttosto che richiama ideali totalitari, autoritari che, come fa notare Matteo Vergani su La Repubblica, utilizza un linguaggio di violenza, punizione, potere, controllo, ma anche speranza e appartenenza. Un linguaggio potente che fa presa sui giovani senza più ideali. Il nemico è diffuso e generalizzato. In poche parole il conflitto è potenzialmente ovunque.

 

Se il conflitto può esplodere in qualsiasi momento in qualsiasi luogo è evidente che un muro non sarà sufficiente a salvarci per almeno due ragioni: innanzi tutto perché opera sui sintomi senza sfiorare minimamente le cause che li generano, e secondo perché se il conflitto può esplodere ovunque, possiamo mai alzare muri ovunque? E comunque, se l’obiettivo è terrorizzare, si troverà un altro modo per farlo. (Vorrei fare qui un inciso che meriterebbe maggiore attenzione che riguarda la preoccupazione che la mania della sicurezza possa degenerare in pericolose e generalizzate forme di esasperazione del controllo, ma lasciamo da parte questa considerazione per il momento).

 

Ebbene, se a contrapporsi non sono unità omogenee da tenere separate con un muro ma cellule ‘autopoietiche’ di terrore all’interno di una società dominante, ecco che il muro si smaterializza e si moltiplica, prendendo la forma del New Jersey, del Pilopat e dei diversi dispositivi di protezione di cui le città di tutto il mondo si stanno affrettando a dotarsi. Sebbene non esaustive della protezione dalle infinite forme in cui il terrore può colpire, sono senz’altro misure che nell’immediato sono necessarie.

 

La discussione su che forma e che funzione sociale e culturale questi dispositivi debbano avere, nata dalla proposta di Stefano Boeri pubblicata qualche giorno fa su Corriere.it di ripensare i New Jersey come vasi che possano ospitare alberi, è sicuramente legittima e necessaria, dal momento che, introducendo oggetti che fisicamente alterano l’aspetto e l’uso di centinaia di migliaia di spazi pubblici in tutto il mondo, riguarda il presente e il futuro delle nostre città e della nostra civiltà.

 

Dobbiamo ‘addomesticarli’ normalizzando la loro presenza nello spazio pubblico, o dobbiamo mantenerli chiaramente riconoscibili? Dobbiamo cioè, come proposto da Boeri, ridurre la distanza che ci separa da questi oggetti, immaginando nuovi possibili usi, integrandoli e rendendoli un elemento strutturante dello spazio pubblico? O dovremmo mantenere la debita distanza da essi, non assorbirli nel nostro quotidiano ma trattarli come corpi estranei, crudi e non ‘mascherati’, come un continuo monito a non assuefarci al terrore, come proposto invece fra gli altri da Antonio Ottomanelli?

 

Siamo davvero sicuri che una barriera antisfondamento, pur mantenendo la sua funzione intrinseca di protezione non possa essere ripensata diventando l’occasione per prendere atto del trauma, attraverso un diverso, purché consapevole, rapporto con le strutture che nello spazio pubblico ne scandiscono la drammaturgia? Pur nella consapevolezza che pensare di risolvere la questione del terrorismo piantando querce è come pensare di arrestare uno tsunami con una staccionata, è chiaro che il momento drammatico che il mondo sta attraversando richiede una presa di posizione coraggiosa, chiara, decisa.

 

Che sia attraverso gli alberi, attraverso l’arte, attraverso un nuovo disegno dello spazio pubblico, nell’immediato quindi ben venga ripensare i New Jersey, rendendo meno estraniante la loro presenza: essi dovranno essere ripensati in maniera da assolvere al paradossale compito di difendere la libertà con un muro. Un muro che oltre a proteggere dovrà essere capace di accogliere, separare e unire allo stesso tempo. Il New Jersey come soglia, permeabile ma sicura, il cui spessore deve mantenere la distanza fra mondi oggi inconciliabili e attraversarla allo stesso tempo, fisicamente e simbolicamente.

 

Ripensare il New Jersey come piccolo gesto, immediato, concreto di presa di coscienza collettiva. Dopodiché se continueremo a non percorrere il deserto che separa il centro dalla periferia, i quartieri dell’opulenza da quelli del degrado, se dentro a questi muri ci trincereremo senza l’urgenza di ascoltare le voci che fuori da essi mute gridano il loro disagio, allora sì che avremo veramente perso.

TAG: #new jersey, #terrorismo, Spazio pubblico
CAT: Architettura e urbanistica, Terrorismo

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