Amore, “problemi” e movimenti: la storia del mondo nel bouldering
Articolo di Giulia Casarotto, tratto da Alpinismi.
Alpinismi non è per forza pareti enormi, chiodi, ghiaccio e spazi sconfinati. L’essenza di Alpinismi può essere cercata e trovata in pochi movimenti, nella cosiddetta “méthode” da cui Giulia Casarotto parte per raccontare il mondo attraverso il bouldering. Problemi e soluzioni, verità di roccia e di fatica battezzate dal magnesio.
….
In fin dei conti per praticare il bouldering non è che serva così tanto. Serve un sasso, un paio di scarpette. Meglio se c’è un crash pad, si… un materasso. Uno di quei materassi con gli spallacci che lo ripieghi, lo metti in spalla e poi tiri su gli occhi con una vaga arroganza quando ti chiedono per la centomillesima volta se serve a fare parapendio o deltaplano… ormai gli rispondi pure di si, e intanto pensi se l’han mai visto anche da lontano un deltaplano.
Servono spazzole e magnesio. Servono spazzole pure dopo che si è scalato, che sta cosa ce la si dimentica spesso.
Servono a volte degli amici, a volte un compagno, a volte nessuno.
Serve un bosco, un prato.
Serve provar a muovere il corpo, senza imbrago, senza corda, con un’idea. Che poi pensi ad un certo punto “che idea del cavolo”. E invece tentativo dopo tentativo… ecco… si…
-Ma daiiiii, il piede là… si si, l’ho sentito meglio di prima! Ehi te che mi paravi, dov’è che l’ho messo il piede? Ma come non hai visto!!! Spetta che riprovo… qui? Ma com’è che fai tu a chiuderti così eh? A salire sopra a quel tallone così bene??
-Stringi forte quella mano destra. Te la devi portare fino alla guancia quella…bugna…. Ecco si, devi aver paura di graffiarti la faccia!!!
-Ah si?? Mo’ provo.
Ma siiiiii!!!! Ho capito. È vero… oh avevi ragione!!! Stringo forte la bugna a destra e riesco a salir sopra al tallone sinistro.
Non ce la farò mai.
Incredibile, sento che posso farcela.
Tentativo dopo tentativo, migliori.
Il bouldering scaturisce da un “problema”, a cui serve una “méthode” – il metodo, ovvero la combinazione di movimenti, prese, appoggi ed equilibrio – che lo risolva. Visto che ci sono, vi invito a cogliere una sfumatura, ovvero come problema sia un sostantivo maschile, e méthode sia invece femminile, la storia del mondo racchiusa nei due opposti di un boulder (sic). E la méthode può connaturarsi come un’intuizione personale o essere corale, l’insieme dei tentativi e delle idee di più persone, lì con te dinanzi al problema.
John Gill, scalatore americano nato nel 1937, è considerato uno dei padri del bouldering, pratica che all’epoca definì in modo inequivocabile, dimostrando la natura creativa e al contempo di ricerca di questa pratica: «Una bella via di bouldering non è mai rappresentata da una sequenza ovvia di prese, anche se dure. Deve essere difficile scoprire la giusta sequenza e deve essere difficile eseguirla. Svolgo ricerca in matematica: è sorprendente scoprire quante analogie ci siano tra un problema matematico, quasi interamente intellettuale, e un problema di boulder quasi interamente fisico. In entrambi i casi l’uomo si ritrova davanti ad una frontiera. Sia nella matematica che nel bouldering ci si ritrova davanti a qualcosa di nuovo, qualche cosa che non richiede solo forza pura, sia essa fisica o intellettuale: è una certa ricerca introspettiva. Un salto infinitesimale da un punto ad un altro».
Tentativo dopo tentativo senti che gli equilibri funzionano meglio, che il peso lo stai usando a tuo favore, sai con quale sequenza muoverti. E la gran fregatura (a parer mio uno degli aspetti più affascinanti) è ripartire rapidi per un secondo tentativo, poi un terzo e così via, finendo per prosciugare energie e pelle. L’entusiasmo per un piccolo progresso ti gasa. Ti carica di voglia di ripartire, ed è più immediato nel bouldering, con linee risolte in meno movimenti, rispetto ai tiri in falesia, dove bisogna ripartire daccapo su trenta metri di via.
Qui entrano in campo le proporzioni… si salgono due tre quattro metri di sasso e già te la fai sotto. Ti impegni come se salissi un tiro. Come se salissi poi una via. Accade che si rimpicciolisce il terreno di gioco, e aumenta la necessità di essere precisi, sempre di più, quel punto lì per il piede, non più in là, non più in qua. Il pollice così. Il mignolo chiuso. E pure permane lo stesso odore di roccia, di aria, di sole, di magnesio che si vive nell’arrampicata tutta. Il bouldering diventa una storia di amore con le rocce di cui si imparano a conoscere i caratteri: il granito, ruvido e sincero, che graffia i palmi e non ti perdona troppi ravanamenti (vedi malleoli polpacci e avambracci in carne viva); l’arenaria, magnetica e dolce che poi tutta sta dolcezza te la sbatte sui denti quando non ne vai fuori, quando nelle uscite ti si para davanti uno scivolo poggiato lungo eterno che proprio non ci arrivi a strizzare una qualunque… crespa che ti aiuti a ribaltare; ancora il calcare, che usa parole taglienti e buchi e forme con aria di falesia… quindi lo gneiss… e poi il porfido.
Il bouldering diventa una storia d’amore con le forme: gli svasi… meravigliosi, le tacche, le crostine, i cristalli… una storia d’amore con i torrenti, con le dorsali e le vette più in alto, con i boschi o i pratoni nei quali galleggiano e spuntano queste grandi o piccole balene o dinosauri, o iceberg, o navi o scivoli che poi son sassi; e infine, il bouldering diventa una storia d’amore con il movimento, una sorta di espressione a corpo libero, l’impegno a cercare le combinazioni giuste, i passi più compatibili con le proprie caratteristiche fisiche, con la propria altezza (eterna diatriba trasversale a tutta l’arrampicata), con i punti di forza, con i punti deboli, con la scioltezza o con l’esplosività.
Insomma per far boulder cosa serve? Penso serva sapere cosa sei, tu, in quel momento, in quel giorno, in quel tuo tempo, di cosa hai bisogno per sentirti più felice del mattino prima. O forse è troppo, saper proprio sempre chi si è, e serve solo provare… e serve crederci, almeno un po’.
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.