Farbenlieder, Canti di Colore: i dipinti di Hans Werner Henze

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20 Febbraio 2018

Saget, Steine, mir an, o! Sprecht, ihr hohen Paläste!

Straßen, redet ein Wort! Genius, regst du dich nicht?

Ja, es ist Alles beseelt in deinen heiligen Mauern,

Ewige Roma, nur mir schweiget noch Alles so still.

Ditemi, pietre, parlate, voi alti palazzi!

Strade, dite una parola! Genio, non dai un segno?

Sì, tutto ha un’anima tra le tue sante mura,

eterna Roma, solo mi tace ancora tutto così quieto.

Sono i primi versi della prima delle bellissime Elegie Romane di Goethe. A pochi passi da Piazza del Popolo, al numero 18 di Via del Corso, c’è la casa dove Goethe, ospite del pittore Tischbein, soggiornò nella sosta romana del suo viaggio per l’Italia. E in questa casa, dove non si entra senza commozione, Michael Kerstan, direttore dello Hans Werner Henze Stiftung (Fondazione Hans Werner Henze), ha promosso di una mostra dei dipinti del compositore tedesco, il cui allestimento è stato affidato a Nanà Cecchi. Realizzazione splendida. Di Kerstan, del resto, insieme a Nanà Cecchi per i costumi, si ricorda un bellissimo allestimento al Teatro Goldoni di Firenze, per il Maggio Musicale Fiorentino, nel 2008, dell’ultima opera di Henze, una Konzertoper, Phaedra.

Nelle stanze della Casa di Goethe, scorrendo i dipinti della mostra, l’occhio e il cuore, ma soprattutto la mente, sono assaliti da bellissime immagini, e si muovono infinite riflessioni, si anima – come scrive Goethe nella sua elegia delle pietre di Roma – il mondo dei ricordi. Ricordi anche personali. Conoscevo Henze dal 1976, quando andai a Montepulciano per intervistarlo. Quell’intervista ci fece diventare amici. Quando nel 2012, Henze ci ha lasciati, lo ricordai con queste parole: “Amò il nostro paese e ci venne ad abitare fuggendo da un paese che credeva illiberale, per poi scoprire negli ultimi anni che anche il nostro lo era, e forse di più. Ma non per questo cessò mai di amare la grande poesia e la grande musica della Germania, dell’Italia e dell’Inghilterra. A lui si deve il meno accademico degli omaggi al teatro greco antico con un capolavoro come Le Bassaridi, superiore forse perfino all’omaggio stravinskiano dell’Oedipus Rex, con cui comunque condivide una totale assenza di retorica e di accademismo.
“La vivacità della sua intelligenza e la profondità del suo intuito erano inimitabili: come volle essere libero nella vita lo fu anche nella musica, scrollandosi di dosso con disinvoltura tutti i dogmatismi dei minuscoli ripetitori delle avanguardie: con Schoenberg, Berg, Webern, Stockhausen e perfino con Boulez aveva molto a che spartire, a cominciare dalla libertà intellettuale, ma niente con i chierici ottusi e infedeli di quei grandi”.

Cammino per le stanze. Qui i ricordi sono non solo quelli di un grande musicista (e dell’immenso poeta che lo ospita), un musicista che era anche un grande drammaturgo, e in privato, perfino un attentissimo pittore. Henze sembra così continuare la tradizione goethiana di affidare al disegno le impressioni intime del viaggio e della sosta. Come se la fotografia non esistesse ancora. Ma esiste, invece, e uno schermo, in ogni stanza, ci restituisce, nel percorso della mostra, le molte fotografie che registrano accadimenti e incontri della sua lunga e avventurosa vita: la vita di un tedesco, come Goethe, innamorato dell’Italia, paese nel quale infine volle vivere, sulle colline di Marino, nei Castelli Romani.

Sono quattro stanze, ciascuna intonata a un colore diverso, come fosse il colore uno specchio dei suoni. Farbenlieder s’intitola, infatti, la mostra, Canti di colore, così come le sue memorie s’intitolano Canti di viaggio, in tedesco Reiselieder mit böhmischen Quinten: Autobiographische Mitteilungen 1926–1995. E la memoria va all’ultimo, stupefacente, romanzo di Goethe, che il titolo dell’autobiagrafia di Henze sembra adombrare: Wilhelm Meisters Wanderjahre, anni di vagabondaggio di Wilhelm Meister. Goethe supera il dolore della perdita del figlio raccontando come Wilhelm invece salvi il suo. La letteratura si fa, più che specchio, conoscenza e risarcimento della vita.

La prima stanza, intonata al giallo, racconta dell’Italia come posto in cui vivere: ecco allora i dipinti dei paesaggi intorno alla casa di Marino. Ma vi si osservano anche disegni e schizzi musicali relativi al Giovane Lord, a Pollicino.

La seconda stanza è dedicata al colore rosso. Un video documenta la vita nella villa di Marino La Leprara. E la nascita dell’opera Gogo No Eiko, dal romanzo di Yukio Mishima, commissionata dalla Deutsche Oper di Berlino nel 1990, e rappresentata al Festival di Spoleto nel 2010, allestita da Giorgio Ferrara. E questa fu la mia recensione dello spettacolo sulla Repubblica:

I giovani di Mishima assassini di sogni
L´opera giapponese di Hans Werner Henze, “Gogo no eiko”, al Festival di Spoleto. Uno spettacolo mozzafiato di Giorgio Ferrara per una partitura di grande forza.

“Il titolo giapponese Gogo no eiko significa “il mare tradito”. E Hans Werner Henze, nella prima versione dell´opera, del 1988, su libretto tedesco di Hans-Ulrich Treichel, lo rispetta: Das Verratene Meer. L´opera fu rappresentata alla Deutsche Oper di Berlino nel 1990. E fu un successo. Ma dodici anni più tardi Henze fa tradurre il libretto in giapponese, componendo circa mezz´ora di nuova musica. Nel 2003 la partitura viene eseguita in forma di concerto al Suntory Hall di Tokyo. Questa rappresentazione della partitura giapponese, al Teatro Nuovo di Spoleto, per il Festival dei Due Mondi, con la regia di Giorgio Ferrara, è la prima che viene realizzata sulla scena. Spettacolo mirabile, mozzafiato: si resta attanagliati alla dolcezza, alla violenza e all´orrore della vicenda dall’inizio alla fine.
“E´ un contrasto generazionale quello che racconta Mishima e Henze mette sulla scena. Noboru è un ragazzo tredicenne che idealizza Ryuji, un ufficiale di marina. Ma quando costui diviene l´amante di sua madre, Fusako, vedova da otto anni, e i due programmano addirittura di sposarsi, l´ideale crolla, l´eroe marino e solitario si degrada a marito borghese. Con la sua banda di giovani ribelli Noboru decide la sua condanna. Attraggono Ryuji in un agguato e lo uccidono. Ma non c´è solo questo conflitto di generazioni, di figli contro i padri. C´è di più e di peggio, nel romanzo di Mishima (che in Italia, chi sa perché è stato tradotto col titolo Il sapore della gloria, che non c´entra niente) e nell’opera di Henze.

“Margherite Yourcenar ha definito il romanzo “d´una perfezione gelida come la lama di un bisturi”. I giovani hanno costruito un mondo mentale perfetto, di eroi e di solitudini, in perpetuo contrasto con la banalità quotidiana della realtà. Quando perciò la realtà non si adegua alla bellezza del mondo ideale, la distruggono, la eliminano, pur di restare fedeli al sogno del mondo ideale. La colpa del marinaio è appunto quella di rinunciare al suo ruolo di eroe marino per diventare un marito e un padre come tutti gli altri. E i ragazzi perciò (qui sta l´abisso: in questo perciò, nella necessità del delitto) lo uccidono.
“Henze compone circa due ore di musica meravigliosa, drammatica, aguzza, che taglia la gola, ma anche dolcissima, struggente, nei dialoghi d´amore tra Fusako e Ryuji e nel lungo bellissimo lamento della donna, nel secondo atto. La messa in scena di Giorgio Ferrara è semplicemente perfetta, aiutato certo dalla suggestiva scena di Gianni Quaranta: un unico modulo che scivola tra un ambiente e l´altro dell´azione, ricordando sia l´iperrealismo americano che la pittura giapponese. I bei costumi di Maurizio Galante e le luci affascinanti di A. J. Weissbard fanno il resto. Attenta, lucidissima la concertazione di Johannes Debus alla testa dell´Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi. Sulla scena bravissimi tutti gli interpreti, tra cui spiccano l´emozionante e dolorosa Fusako di Jihye Son, il tormentato Noboru di Toshiaki Murakami e il tenero, umanissimo Ryuji di Carlo Kang.
“Successo trionfale per tutti, e il compositore festeggiato lungamente dal pubblico e dagli interpreti. Segno che il teatro musicale contemporaneo è sempre vivissimo e che, quando è rappresentato adeguatamente, riesce a ottenere il consenso del pubblico. Ci piacerebbe rivedere questo capolavoro di Henze in qualche altro teatro italiano”.

L’augurio che chiude l’articolo non fu, naturalmente, confermato. Siamo in Italia, e un teatro, tranne casi rari, non rischia il deserto per un’opera nuova. Di musica che non accarezza le orecchie.

Altre pitture, alle pareti della stanza, testimoniano le sue esperienze del viaggio a Cuba e a Costa Rica.

La terza stanza, dedicata al colore viola, rammenta il viaggio in Kenya e la preparazione dell’opera L’Upupa e il trionfo dell’amore, andata in scena a Salisburgo nel 2003. Ci andai. E questa fu la recensione:

“Di ciascuno è destino il suo démone” ha scritto Eraclíto. Potrebbe essere il motto dell’ultima opera di Hans Werner Henze, che è artista coltissimo, lettore accanito di poesia e di racconti in molte lingue, amico di scrittori, amante della cultura greca (una sua opera, Le Bassaridi, è nient’altro che Le Baccanti di Euripide) e di quella orientale, alla quale attinge per questa sua ultima fatica, L’Upupa e il trionfo dell’amore filiale, che si sta rivelando il successo più grande del festival di Salisburgo di quest’anno.

!Quando compare il compositore stesso sulla scena per salutare il pubblico, dalla sala del Kleines Festspielhaus si leva un boato. Il fatto è che la chiusura dell’opera, oltra a essere di una bellezza musicale straordinaria, è anche di un pathos struggente: ma sì, perché non confessarlo? ci si commuove fino alle lacrime per questo happy end che però è l’inizio di un nuovo distacco per un altro viaggio. La storia è una fiaba persiana. Ma Henze, che ha scritto da sé anche il libretto, affonda nelle grande poesia della propria lingua, e si avvertono echi del Flauto Magico, del Divano Occidentale-Orientale di Goethe, del romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann.

“Un vecchio sovrano ha perso un uccello magico, un’upupa, che gli assicurava la felicità. Manda a cercarlo i suoi tre figli. Ma solo il minore, Kasim, si avventura nel viaggio. Gli altri due fratelli preferiscono aspettare il suo ritorno ai bordi di un pozzo. Kasim incontra un démone benefico, che diventa un po’ il suo doppio, e i due vanno insieme alla ricerca dell’uccello, come Tamino e Papageno, nel Flauto Magico, alla ricerca di Pamina. Che qui si chiama Badi’at, ed è una principessa ebrea. Tra mille avventure il démone resta ferito, e i due fratelli gettano Kasim e Badi’at nel pozzo, per recare al padre l’Upupa che Kasim ha ritrovato. Ma il démone, anche se ferito, salva i due giovani dal pozzo. La verità viene a galla. Tutto bene? No, perché Kasim parte a cercare la medicina fatata che curerà la ferita del démone.

“La partitura è insieme complessa e semplicissima: fitta di sapienza contrappuntistica, di echi madrigaleschi (come recentemente nel bellissimo Adonis), e perfino di un lirismo non mascherato, ma infarcita anche del canto reale degli uccelli, dei loro rapidi frulli d’ali, e di tanto in tanto interrotta, come in un Singspiel, dalla parola parlata, appare quasi una summa della poetica di Henze, vale a dire che la musica comunichi emozioni e che il teatro racconti storie, ma è anche una sintesi delle vicende, musicali e no, di un secolo, di cui, come uomo e come compositore, Henze è stato un protagonista. La rappresentazione salisburghese è splendida: Dieter Dorn ha scatenata la propria fantasia e stimola quella degli spettatori nel costruire un mondo fiabesco.

“Tutto è assolutamente finto e teatrale e perciò tanto più vero. Musicalmente siamo a livelli altissimi: Markus Stenz, che sostituisce Thielemann impegnato a Bayreuth, legge con intelligenza e profonda partecipazione la bellissima, ma complessa partitura. Gli interpreti non sono da meno: in particolare l’intenso Matthias Goerne nella parte di Kasim, l’impagabile démone di John Mark Ainsley, la bella ed espressiva Badi’at di Laura Aikin, il Vecchio di Alfred Muff e Malik di lusso Hanna Schwarz. Dei Wiener e del Coro dell’Opera di Vienna e dei solisti del Kozertvereinigung l’elogio è dato per scontato. Fa piacere sapere che rivedremo l’opera al Massimo di Palermo, che ha collaborato a produrla, insieme anche al Teatro Real di Madrid”.

Infine, la quarta stanza, dedicata al colore azzurro, racchiude il mondo più intimo del compositore, la sua profonda amicizia con la scrittrice Ingeborg Bachmann. Anche lei viveva a Roma e mori tragicamente bruciata dalle fiamme accese dalla sigaretta che teneva in mano quando si addormentò. Insieme hanno scritto pagine bellissime.

Ma una breve descrizione non restituisce l’emozione della visita. Le pitture vanno viste, lentamente, una per una. Non si tratta di scegliere quale sia la più bella, ciascuna racconta qualcosa di Henze. Proprio perché non destinate a diventare pubbliche, queste pitture ci rivelano l’animo più segreto del compositore. A differenza delle pitture di Schoenberg, che invece sono dipinte per essere guardate da tutti. In ogni caso questa piccola e bella mostra merita un viaggio a Roma.

Fiano Romano, 20 febbraio 2018

Canti del colore / Farbemlieder / Songs of Colour

HANS WERNER HENZE (1926-2012)

Mostra a cura di Michael Kerstan

Casa di Goethe in cooperazione

con Cantiere Internazionale d’Arte,

Berliner Ohilarmoniker,

Hans Werner Henze-Stiftung

e Paul Sacher-Stiftung Basel

Allestimento di Nanà Cecchi

Casa di Goethe, Via del Corso 18, Roma

10.00-18.00 / Chiuso il lunedì

10.2 -20.5.2018

TAG: arte
CAT: Arte, Musei-Mostre

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