Fuori dal Rakhine: Birmania, terra di libri e cani randagi

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25 Agosto 2018

Durante un viaggio in Birmania durato tre mesi, l’autrice tenta di raccontare uno spaccato di Yangon. L’intento di complementare le notizie provenienti dallo Stato Rakhine e dal confinante Bangladesh sulle tensioni tra esercito birmano e la minoranza etnica Rohingya nasce dalle voci e letture raccolte durante la permanenza nella città più estesa, abitata e paradossale del Myanmar.

 

Mancavano pochi giorni alla mia partenza per Rangoon (oggi Yangon), la voce materna di colei che conosce meglio di chiunque altro i miei gusti letterari affiorò dagli scaffali di una libreria di Torino: “Ti ho trovato il libro per chiudere la valigia”. Mi porse “Sulle tracce di George Orwell in Birmania” di Emma Larkin, edizione fresca di traduzione in italiano e di introduzione inedita mozzafiato. Durante le dodici ore di volo, vuoi per l’abile penna della Larkin, vuoi per la deludente lasagna servita per cena a bordo, lessi di gusto, assaporando le prime immagini della Birmania che mi venivano proposte: le strade labirintiche, il caldo umido, le pioggie monsoniche, i volti dipinti di thanakha, i libri venduti per strada e conservati in buste di plastica per proteggerli da topi e polvere. Passeggiando per Yangon, trovo più libri intorno a me di quanti avessi potuto immaginare dal sedile dell’aereo: nelle mani della gente, sugli autobus, nelle tea houses, sui marciapiedi, agli angoli delle strade, svenduti a prezzi irrisori. Nelle fotocopisterie a bordo strada, che si sono sapute improvvisare negozietti di telefonia mobile, fior fior di libri vengono copiati da ragazze giovanissime, che vestono colorati abbinamenti di longyi ed ingyi con lo stesso garbo con cui scannerizzano le pagine, a ritmo lento e costante.

La circolazione sorprendente di testi scritti tra appassionati lettori di ogni età è emblematica dei contrasti in cui la Birmania vive oggi. Alcuni titoli sono proibiti e non vengono ristampati, molti sono invece importati, tradotti e spesso timbrati come “copie non autentiche”. Il Paese sta attraversando un cruciale periodo di transizione politica dal governo militare alla democrazia, quest’ultima notoriamente impersonificata da Aung San Suu Kyi, l’attuale Consigliera di Stato, una fenice sopravvissuta agli arresti domiciliari per oltre vent’anni. Transizione, specie in gergo politico, è un termine beffardo: pur dando l’idea di movimento, non dice alcunchè circa la destinazione da raggiungere, e anche nel caso della “transizione democratica” della Birmania, le grandi contraddizioni in cui il Paese è aggrovigliato rendono difficile decifrare gli obiettivi politici del governo di “Mother Suu”.

Agli occhi di uno straniero che entra per la prima volta in Myanmar, il paesaggio – inteso non solo quello naturalistico, bensì anche socio-politico – appare un set cinematografico: realistico, ma troppo paradossale per essere vero. L’occhio cade quasi subito sui cani randagi che popolano la Birmania di oggi, così come quella che ospitò George Orwell negli anni Venti. Il regime militare, al potere formalmente fino al 2011 e, di fatto, fino alla formazione del primo Parlamento eletto democraticamente nel 2016, era solito istituire regolari cacce a cielo aperto per ridurre il numero di animali e, di conseguenza, malattie ed incidenti. Ad oggi, migliaia di cani abitano indisturbati gli edifici risalenti all’epoca coloniale britannica, che non hanno mai visto opera di manutenzione. L’intera città di Yangon, conservando il fascino e le dimensioni di una (ex) capitale, non presenta ad oggi alcun piano regolatore comunale per la ristrutturazione dei condos e la viabilità. Disabituati a mettere in connessione problemi quotidiani di questo calibro con il nobile e sacro concetto di democrazia, ci si ritrova facilmente sorpresi dalle proprie stesse domande: quali sono le soluzioni del governo democratico ai cani randagi, ai palazzi in sfacelo, ai cavi dell’elettricità nelle pozzanghere, al traffico che blocca il centro città per ore?

Ecco perchè, invece di citarne la transizione, per contestualizzare la Birmania di oggi è necessario studiarne accuratamente i contrasti. Yangon è una città dal potenziale enorme, pensata dagli Inglesi in epoca coloniale come potenziale centro nevralgico di formazione per ingegneri, scienziati e medici provenienti da tutta la regione sud-est asiatica, divenuta secondo porto più grande ed importante in Asia agli inizi del ventesimo secolo. I suoi sviluppi più recenti sono la parte più sorprendente. Yangon conta più di venti centri commerciali e altrettanti hotel a cinque stelle, che fanno parte dell’anima della città a tutti gli effetti (i taxi rimbalzano da un centro commerciale all’altro e su tutte le cartoline disponibili l’uno o l’altro grattacielo stellato occupano il primissimo piano) e molte delle quali sono state avviate non prima del 2016 (praticamente, l’altroieri). Ciononostante, in qualsiasi stagione più di metà delle camere dei lussuosi hotel sono vuote, i centri commerciali sono letteralmente circondati da bancarelle di vestiti e oggettistica a prezzi irrisori, le ultimissime tecnologie in campo di telefonia ed informatica inondano le vetrine dei negozi senza vedere un cliente. Il tutto incorniciato dalle mandrie di taxi che scorrazzano per la città, trasportando passeggeri o cercandone, volante a destra (le macchine sono di seconda mano, dal Giappone) e, nonostante ciò, destra anche la corsia di marcia (fedeli alle regole stradali post- ed anti-britanniche). Mettendo insieme i pezzi, la cornice di paradossi suggerisce che la transizione, che a tutto fa pensare fuorchè la stasi, stia avvenendo in un clima di profonda attesa, una quiete di cui non si riesce a decifrare se sia quella prima o dopo la tempesta. Un silenzio dovuto, dopo i dolorosissimi anni di scontri tra studenti ed esercito? Un silenzio curioso, dopo anni di isolamento e sanzioni commerciali? Un silenzio teso, che anticipa la fase democratica post-Suu Kyi? Un silenzio nostalgico, prima della trasformazione totale di Yangon in una metropoli asiatica à la Bangkok? Non è dato sapere.

C’è molto da studiare per valutare l’efficacia di un Paese e il benessere di un demos. Nel caso del Myanmar, ad oggi gli interessi economici e i grandi attori internazionali giocano un ruolo rilevantissimo nello sviluppo del Paese, che nel 1987 era, a detta delle Nazioni Unite, tra i meno sviluppati al mondo. Non meno rilevante rimane il fatto che, per le strade e nell’aria, misto ai forti odori di cibo fritto, durian fresco e pesce essiccato, si distingue chiaramente una coscienza altamente informata ed imperterrita. Arriva a zaffate quando si riceve una risata come risposta, esala dalle conversazioni che puntualmente iniziano con “lei è qui per insegnare all’università, mi dica se sbaglio”, la si respira dai finestrini dei taxisti, che leggono a fatica l’inglese, eppure mi prendono di mano il telefono, premono l’indice sullo schermo e, sillaba per sillaba, compongono il nome della via che sto mostrando loro, con la stessa determinazione di un bambino che vuole finire di decifrare la pagina, senza che la mamma lo aiuti.

TAG: Aung San Suu Kyi, Birmania, diritti umani, Myanmar
CAT: Asia, viaggi

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