Cronaca

Cristiani in Cina: la croce della repressione

18 Ottobre 2025

Negli ultimi giorni, nuove notizie hanno riportato l’attenzione su una delle più gravi violazioni dei diritti umani ancora in corso: la persecuzione dei cristiani in Cina. Arresti di pastori, chiusure forzate di chiese, limitazioni severe all’attività religiosa e al culto online: è il segno di una repressione che non è episodica, ma sistematica. A farne le spese sono soprattutto le comunità non registrate, le cosiddette house churches, o “chiese sotterranee”, realtà indipendenti che si riuniscono nelle case per pregare, predicare e vivere la fede al di fuori del controllo statale.

Per comprendere la portata di ciò che sta accadendo, è necessario guardare indietro, alle radici storiche e ideologiche di questa persecuzione, e capire perché il governo cinese, nonostante l’immagine moderna e globale che vuole dare di sé, continui a temere così profondamente la libertà religiosa.

Tornando indietro, fin dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, la religione è stata vista come un “elemento” sospetto. Il Partito Comunista Cinese, di matrice atea e materialista, considera ogni fede una potenziale minaccia all’unità ideologica e alla lealtà verso lo Stato. Mao Zedong, che definiva la religione “un veleno spirituale”, impostò un modello di controllo totale in cui ogni forma di culto doveva essere ricondotta sotto l’autorità del Partito. Da allora, la linea è rimasta sostanzialmente invariata. Oggi esistono cinque religioni riconosciute ufficialmente: buddismo, taoismo, islam, protestantesimo e cattolicesimo, ma tutte devono operare all’interno di organizzazioni controllate dallo Stato. Il principio non è la libertà religiosa, bensì la gestione religiosa: si può credere solo se si crede “nel modo giusto”, ossia nel modo che non metta in discussione l’ordine politico e sociale stabilito dal Partito. Negli ultimi anni questa impostazione si è, purtroppo, radicalizzata. Nel 2016 Xi Jinping ha lanciato la cosiddetta “sinizzazione della religione”, un processo attraverso cui tutte le confessioni devono adattarsi ai valori socialisti e alla cultura cinese “nel senso patriottico”. In pratica, la fede deve piegarsi alla logica dello Stato.

Nel 2025, la campagna repressiva ha conosciuto una nuova accelerazione. Secondo fonti internazionali, decine di pastori e membri della Zion Church, che sarebbe una delle più grandi chiese protestanti non registrate del Paese, sono stati arrestati con accuse vaghe, come “uso illegale delle reti informatiche” o “attività sovversive”.

Il fondatore della chiesa, Jin Mingri (Ezra), è stato detenuto e isolato; la famiglia ha denunciato che non gli è permesso incontrare i propri avvocati e che soffre di problemi di salute. La Zion Church, nata a Pechino e cresciuta rapidamente grazie all’attività online, è da tempo nel mirino del regime: si rifiuta di registrarsi presso l’Associazione Protestante controllata dal governo e rivendica la libertà di culto come diritto naturale. Così, le autorità hanno reagito chiudendo i luoghi di culto, sequestrando apparecchiature elettroniche e impedendo persino la trasmissione in streaming delle funzioni religiose. In molte province, tra cui Jilin, Henan e Shanxi, decine di chiese domestiche sono state designate come “organizzazioni illegali” e sciolte. Chi continua a riunirsi rischia multe salatissime, arresti e persecuzioni sul luogo di lavoro.

In questo quadro drammatico voi lettori vi starete chiedendo, giustamente, perché la Cina teme il cristianesimo? Ebbene le motivazioni di questa repressione sono profonde e radicate nel modo in cui il Partito concepisce il potere e la società.

In primo luogo, il governo teme la perdita del controllo ideologico. Le chiese indipendenti rappresentano una forma di comunità e di autorità morale alternativa a quella statale. In un sistema politico che si fonda sul monopolio del pensiero, qualunque spazio autonomo, anche se spirituale, è percepito come un rischio.

In secondo luogo, la “sinizzazione” della religione serve a neutralizzare la dimensione universale del cristianesimo, che trascende le frontiere nazionali. Il messaggio cristiano parla di una verità che non appartiene al potere politico; per questo, il Partito lo considera una minaccia al proprio monopolio sulla coscienza.

Un terzo fattore è la paura dell’influenza straniera. Il cristianesimo, con la sua diffusione mondiale, viene spesso associato all’Occidente e percepito come possibile veicolo di ingerenze esterne. Per Pechino, che punta a costruire un’identità nazionale forte e indipendente, l’idea di milioni di cittadini legati spiritualmente a un credo “importato” è vista con sospetto.

Infine, la repressione nasce anche da un dato di fatto: la crescita impressionante dei cristiani in Cina. Secondo alcune stime, oggi i fedeli potrebbero superare i 100 milioni, dunque più dei membri del Partito Comunista stesso. È un numero che inquieta chi governa, perché dimostra che la fede, nonostante decenni di propaganda atea, continua a crescere e a sfuggire al controllo.

Eppure, nonostante il clima di paura, la fede non si spegne. Molte comunità si riuniscono in segreto, celebrando messa o culto in case private, scantinati o locali dismessi. Le house churches non hanno gerarchie ufficiali, ma si basano su relazioni dirette, su una fede vissuta nella quotidianità.

Questa dimensione “domestica” della Chiesa cinese è insieme la sua fragilità e la sua forza. Fragilità, perché espone i fedeli a rischi enormi; forza, perché la rende difficile da estirpare. Ogni volta che una chiesa viene chiusa, ne nascono altre due. Ogni pastore arrestato diventa testimone di un coraggio che la propaganda non riesce a cancellare.

Le testimonianze raccolte da organizzazioni come ChinaAid e Radio Free Asia raccontano di fedeli che si ritrovano di notte per pregare, di Bibbie nascoste nelle case, di famiglie che mantengono viva la fede con discrezione ma con fermezza. Molti di loro dicono che non vogliono ribellarsi allo Stato, ma semplicemente restare fedeli alla propria coscienza.

Trovo doveroso sottolineare che la repressione religiosa in Cina non colpisce solo i cristiani, ma anche musulmani uiguri, buddisti tibetani e altri gruppi minori. E il paradosso è evidente: una fede che predica la pace, la carità e l’obbedienza civile viene trattata come minaccia alla sicurezza nazionale.

Il governo giustifica le misure con la necessità di “mantenere la stabilità sociale”, ma dietro questa formula si nasconde una concezione autoritaria della società, in cui la libertà di coscienza è subordinata alla lealtà politica. In questo senso, la persecuzione dei cristiani è lo specchio più chiaro del modello cinese: un sistema che tollera tutto, tranne ciò che non può controllare.

Sono certo che leggendo vi chiederete un’altra cosa: l’ONU? la Comunità internazionale? che cosa stanno facendo e cosa hanno fatto per queste persone? La comunità internazionale ha reagito con dichiarazioni di condanna, ma spesso senza conseguenze concrete. Le relazioni economiche con la Cina pesano più della difesa dei diritti umani. Tuttavia, il tema della libertà religiosa rimane cruciale, perché riguarda un principio che precede ogni legge: il diritto dell’uomo a credere, a pensare e a testimoniare senza paura.

Organizzazioni come Human Rights Watch e Open Doors continuano a denunciare la situazione, ma serve un impegno più ampio, anche da parte dei governi occidentali, delle Chiese e della società civile. Non per alimentare una contrapposizione politica, ma per difendere la dignità di milioni di persone che vogliono solo vivere la loro fede.

Spesso noi occidentali pensiamo che cosa accade dall’altra parte del mondo non possa influenzarci o toccarci, ma devo deludervi, c’è anche un messaggio per noi. In Europa, dove la fede è spesso relegata alla sfera privata o derisa come anacronistica, la testimonianza dei cristiani cinesi ricorda che la fede autentica nasce dalla libertà interiore, non dal consenso sociale. Lì dove credere costa caro, la fede diventa vera.

In un mondo che esalta la tolleranza ma dimentica la verità, la storia dei cristiani perseguitati in Cina è un richiamo potente. Ricorda che non c’è libertà senza il diritto di credere, e che ogni società che pretende di controllare le coscienze, qualunque sia la sua bandiera, si condanna alla menzogna.

La repressione contro i cristiani in Cina non è un episodio isolato, ma parte di una strategia più ampia: quella di sottomettere lo spirito umano al potere politico. È un tentativo di spegnere la luce che accende la coscienza, di ridurre la fede a formalità controllata. Ma la fede, come la verità, non si spegne con i decreti.

La storia della fede non è mai stata un cammino facile. Chi oggi soffre per Cristo in Cina non è solo: prima di loro, altri hanno sopportato la stessa croce, e dopo di loro altri ancora saranno chiamati alla stessa prova. La persecuzione, lungi dall’essere segno di sconfitta, è testimonianza di verità e di luce.

“Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” (Matteo 5,10)
“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me.” (Giovanni 15,18)
“Siate forti, non temete! Ecco il vostro Dio, Egli viene a salvarvi.” (Isaia 35,4)
“In tutto questo siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati.” (Romani 8,37)
“Nella vostra perseveranza salverete le vostre anime.” (Luca 21,19)
“Poi udii la voce del Signore che diceva: ‘Chi manderò e chi andrà per noi?’ Io risposi: ‘Eccomi, manda me!’” (Isaia 6,8)

Queste parole, incise nel cuore dei credenti di ogni tempo, ricordano che nessuna catena può imprigionare lo Spirito, e nessun regime potrà mai cancellare la verità del Vangelo. La fede sopravvive al buio, perché in essa vive la promessa che la luce vince sempre.

Ogni volta che una chiesa viene chiusa, una casa si apre. Ogni volta che un pastore viene arrestato, una comunità si unisce nel silenzio. E in quel silenzio, più forte di ogni propaganda, si rinnova il mistero cristiano: la croce che torna a essere il segno della libertà.

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