Cronaca

Emanuela Orlandi non fu rapita, ma scomparve. Il rapimento è un’invenzione mediatica

Stampa e televisione hanno messo in campo da tempo uno show sulla scomparsa della cittadina vaticana. Uno show basato su un rapimento inventato

15 Novembre 2025

L’errore principale che si è commesso nel caso di Emanuela Orlandi è stato quello di far passare una “scomparsa” per un “rapimento”. Rapimento pubblicizzato dai media in tutte le salse, da quello politico a quello sessuale, passando per un sequestro malavitoso a quello vaticano. Come se Emanuela Orlandi fosse stata la principessa di Montecarlo, ambita da tutti i rapitori del mondo e oggetto di trattative internazionali.

No, Emanuela Orlandi non fu rapita, ma scomparve. E a dirlo è la logica. Se è vero che la giovane cittadina vaticana era nata e cresciuta in un ambiente di eccellenze, è anche vero che non proveniva da una famiglia ricca a cui potevi estorcere denaro. Ercole Orlandi, il padre di Emanuela, era il fattorino della Santa Sede. Maria Pezzano, madre di Emanuela, era una casalinga. Una famiglia normale. Con uno stipendio normale. Una richiesta di riscatto non avrebbe avuto senso. Così come non ha senso parlare di rapimento terroristico o criminale, poiché Emanuela Orlandi non aveva una caratura politica tale da poter essere usata come trattativa per liberare attentatori papali o ricattare le finanze del Vaticano. Come disse il cardinale Silvio Oddi, la famiglia Orlandi era priva di un peso specifico e se proprio volevi ricattare la Santa Sede avresti fatto prima a rapire un cardinale in vista e non una giovane flautista.

Ecco perché non si comprende perché la famiglia Orlandi insista e persista a parlare di rapimento. Pietro Orlandi lo ha dipinto con colori sgargianti: Emanuela rapita in un contesto di lotte di potere dentro il Vaticano. Una perla di rara sciocchezza che ha spinto una lettrice a commentare in modo sarcastico: “Accipicchia! Eravate così importanti?”. Stessa cosa dicasi di Natalina Orlandi che, durante una trasmissione televisiva, disse che, nel caso di sua sorella Emanuela, bisognava eliminare la parola “scomparsa” dal vocabolario per sostituirla con il termine di “rapimento”. Difficile comprende perché insistere su Emanuela rapita, a meno che, dando un’occhiata a Google, non scopri che sia Pietro sia Natalina vengono definiti “celebrità televisive”. 

Ma a parte questa osservazione che qualche sospetto sulle intenzioni familiari dovrebbe sollevarlo, l’unica cosa certa per gli inquirenti ma non per i media, che su questa vicenda ci hanno costruito una saga infinita, è che Emanuela Orlandi, la sera del 22 giugno 1983, non fu rapita né dai terroristi turchi, né dai servizi segreti bulgari, né dai criminali romani, né dai reclutatori di minorenni da destinare agli harem di prelati praticoni o ai film porno, né tantomeno per ricattare papi e porporati, ma scomparve, come purtroppo spariscono centinaia di adolescenti ogni anno in Italia senza che finiscono sulle prime pagine dei giornali solo perché non abitano in Vaticano, ma abitano a Sondrio, a Bergamo, a Vicenza o nelle periferie romane.

D’altronde, se diamo un’occhiata al dizionario, notiamo che il termine “rapimento” vuol dire “portare via con la forza, strappare con la violenza”. Un’azione che metterebbe in moto una reazione da parte della vittima che comincerebbe a urlare, a dimenarsi, a gridare aiuto. Successe così con Mirta Corsetti, una ragazza di tredici anni, figlia di un ricco imprenditore della ristorazione, rapita a Roma nel 1981. Un blitz avvenuto di notte, ma alla presenza di testimoni in grado di fornire indicazioni agli inquirenti dopo aver sentito le urla della ragazza. Un sequestro a scopo di riscatto seguito da una richiesta di denaro e dalla prova provata che la ragazza era viva e imprigionata. 

Nel caso di Emanuela Orlandi, invece, tutto questo non accadde. Intanto, la ragazza non sparisce in un viadotto di campagna, ma svanisce in pieno centro di Roma, nei pressi del Senato, presidiato da polizia, carabinieri, guardia di finanza e vigili urbani, in pieno giorno e su un corso frequentato da cittadini e turisti. Un rapimento in quella zona avrebbe attirato troppi testimoni. E invece nessuno notò qualcosa di anomalo. Potrebbe essere stata rapita con l’inganno, dirà qualcuno. Sì, ma solo se il marpione era una persona conosciuta dalla vittima, dato che difficilmente una ragazza si fida di uno mai visto, soprattutto se adulto. Infatti gli inquirenti non credettero mai a un rapimento, ma ritennero più probabile che la ragazza quella sera dovette seguire un conoscente o un amico occasionale. 

Il secondo aspetto è che, nei casi di sequestro, i rapitori, di solito, chiamano subito la famiglia della vittima rivendicando il ratto e dettando le condizioni. Nel caso Orlandi, invece, nemmeno questo avviene. Nessuna telefonata, nessuna richiesta. Silenzio assoluto. Anzi, i primi telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”, parlarono di allontanamento volontario, peraltro infondato. Poi l’appello del papa verso coloro che “avevano responsabilità di questo caso” fece decollare la bolla del rapimento. Da quel momento in poi, partirono telefonate, comunicati, cassette audio e messaggi con nomi di fantasia di soggetti incapaci però di dimostrare che la quindicenne fosse nelle loro mani. Il che taglia la testa al toro, perché nessuna organizzazione avrebbe rinunciato a una simile “arma”. Con la foto di una quindicenne spaventata, i rapitori avrebbero potuto ottenere qualsiasi cosa e influenzare la pubblica opinione. Se hai l’ostaggio mandi la foto, non mandi fotocopie di documenti o notizie sul cantante preferito di Emanuela. 

E allora cosa è successo a Emanuela Orlandi? E’ successo quello che è successo a tante altre ragazze più o meno della sua stessa età, da Maria Goretti a Sarah Scazzi, passando per Stefania Brini, Desireé Piovanelli, Elisa Claps: un delitto commesso da qualcuno che la ragazza conosceva talmente bene da seguirlo fiduciosa, ignorando che sarebbe rimasta vittima successivamente. Del resto, se è vero che Emanuela Orlandi, descritta dalla famiglia come diffidente verso gli estranei e quindi incapace ad accettare un loro passaggio, fu vista per l’ultima volta in una zona affollata come Corso Rinascimento, dove però nessuno ravvisò un’azione violenta nei suoi confronti, allora l’unica spiegazione che resta è che, a quella fermata dell’autobus o sul lato opposto, oppure alla fine del corso stesso, andò via con una persona nota e stranota. Qualcuno con cui aveva appuntamento o che le offrì un passaggio. Un incontro finito purtroppo tragicamente, con tanto di delitto e occultamento di cadavere. 

Quel “qualcuno” lo si poteva individuare facilmente se si fossero fatte indagini serie e non ci fosse stata la gara a chi sparava più fuochi d’artificio, trasformando un caso di cronaca in un romanzo a puntate. Perché Emanuela Orlandi, a quindici anni, non è che poteva conoscere molte persone di cui si fidava. Saranno state pochissime. Bastava individuarle e interrogarle per mettere le indagini sul giusto binario. Purtroppo, si è voluto collegare la scomparsa a un rapimento e questo ha fatto deragliare in maniera irreparabile le indagini. E ci dispiace notare che, tra piste londinesi che si sono rivelate una patacca e scavi in Vaticano e in giro per Roma a caccia di ossa di Emanuela, più che cercare la soluzione del caso Orlandi, sembra che si stia cercando di portare avanti uno show a puntate. 

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