Cronaca

Emanuela Orlandi, perché Domenico Sica puntò Mario Meneguzzi?

Il secondo titolare d’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi era convinto che lo zio di Emanuela avesse avuto un ruolo nella scomparsa della nipote. Ma per quale motivo?

14 Novembre 2025

Nel caso Orlandi c’è una figura su cui vale la pena soffermarsi. Parliamo di Domenico Sica, secondo titolare del fascicolo d’inchiesta sulla scomparsa della cittadina vaticana. Secondo il pm Ilario Martella, Sica indagò poco o nulla sulla “pista bulgara”, cioè sulla pista che voleva Emanuela Orlandi rapita per essere scambiata con Ali Agca, l’attentatore di Wojtyla, poiché convinto che dietro la scomparsa di Emanuela si nascondeva “una storia tra la ragazza e suo zio Mario Meneguzzi”. 

Ma in base a quali elementi Sica era convinto che Meneguzzi avesse avuto un ruolo nella sparizione della nipote? Per capirlo bisogna tornare al 30 agosto 1983 quando Andrea Ferraris, fidanzato di Natalina Orlandi e oggi suo marito, confidò a un maresciallo dei carabinieri un “fatto” avvenuto cinque anni prima tra Natalina e suo zio Mario, nel contesto di vessazioni sessuali messe in atto da Meneguzzi sulla nipote. Quella rivelazione fu messa anche a verbale in una denuncia ai carabinieri e dovette essere così rilevante da convincere i militari dell’Arma a prelevare Natalina e ad accompagnarla da Sica per raccontare cosa fosse successo tra lei e lo zio. 

Dopo l’interrogatorio, la Procura di Roma inviò una informativa alla Segretaria di Stato Vaticano per verificare l’attendibilità della rivelazione di Natalina. La risposta giunta dalla Santa Sede non si era fatta attendere e, in un documento datato 8 settembre 1983, confermava le “morbose attenzioni sessuali” che lo zio Mario aveva rivolto, nel 1978, alla nipote Natalina, minacciando anche di farla licenziare dalla Camera dei deputati, dove la ragazza lavorava come segretaria di un ufficio legale anche grazie all’interessamento dello zio, se avesse parlato della cosa in giro.

Raccolta la conferma dal Vaticano, i carabinieri consegnarono a Sica una informativa dettagliata su Mario Meneguzzi, ritenendo opportuno metterlo sotto osservazione in merito alla scomparsa di Emanuela Orlandi, sospettando che l’uomo potesse aver riservato a Emanuela lo stesso trattamento riservato alla sorella Natalina. Sorella che in conferenza stampa ha derubricato le “morbose attenzioni sessuali” dello zio a “piccole avance verbali” senza spiegare il motivo per cui rimase “terrorizzata” e senza chiarire cosa spinse i carabinieri a prenderla di peso e a portarla in Procura. I carabinieri si muovono per dei reati, non per dei semplici corteggiamenti verbali. Questo lascia sospettare un vero e proprio reato sessuale commesso dall’uomo. Un’ipotesi rafforzata dal fatto che il cardinale Agostino Casaroli, per chiedere informazioni al consigliere spirituale della famiglia Orlandi, Josè Alzate, usò un linguaggio doppiamente cifrato, dimostrando la delicatezza della questione. 

Comunque sia, Mario Meneguzzi dovette essere particolarmente ansioso in quei giorni, tanto da assumere un atteggiamento circospetto che gli permise di accorgersi di essere pedinato da qualcuno. Solo che, anziché rivolgersi agli inquirenti per scoprire l’identità dei pedinatori, si rivolse a un amico di famiglia, Giulio Gangi, il quale, dopo aver fatto delle verifiche, lo avvisò di avere la polizia alle calcagna, finendo per bruciare le indagini. Curioso come, in Commissione Parlamentare, Pietro Meneguzzi, figlio di Mario, abbia detto che il padre temeva di essere seguito dai rapitori di Emanuela e che quando seppe che quei ceffi erano poliziotti l’allarme rientrò. Una dichiarazione strana perché, se fossero stati rapitori, quale occasione migliore per trattare la liberazione di Emanuela? Resta il fatto che la soffiata di Giulio Gangi fu una leggerezza che impedì a Sica di fare indagini serie sullo zio di Emanuela, costringendolo a mettere fine all’inchiesta perché Meneguzzi, sapendo di essere finito nel mirino degli investigatori, avrebbe preso le debite precauzioni per non essere beccato con le mani nel sacco.

Ma in base a quale ipotesi istruttoria Sica sospettò dello zietto di Emanuela? Le risposte sono facili da capire ma difficili da accettare. Primo: Sica non rimase mai convinto dell’alibi di Meneguzzi, vista la breve distanza che separa Roma da Torano, luogo in cui il Meneguzzi disse di trovarsi il giorno della scomparsa di Emanuela. 

Secondo: non è vero che Alfredo Sambuco, il vigile in servizio davanti al Senato che disse di aver visto un uomo parlare con Emanuela con “tono confidenziale” e il cui profilo somigliava a Meneguzzi, fu interrogato solo nel 1985 da Ilario Martella. Il quotidiano de L’Unità del 29 luglio 1983 racconta che Sambuco fu convocato da Sica già il 27 luglio 1983, ma l’uomo non si presentò. Si presenterà solo in seguito, tanto che fu lo stesso Sambuco, nel 2002,  a dire al giornalista Pino Nicotri di “non aver mai parlato di Avon (la ditta menzionata da Emanuela in una telefonata alla sorella, nda) né con i carabinieri né con Domenico Sica quando mi ha interrogato”.

Come si vede, non è vero che Sambuco fu interrogato da Martella solo nel 1985, ma anche da Sica nel 1983. La domanda da porsi è questa: “In che giorno e mese Sambuco fu convocato e interrogato da Sica?”. La risposta a questa domanda potrebbe essere cruciale perché se fosse avvenuta a settembre del 1983, dopo che Sica aveva saputo delle attenzioni sessuali di Mario Meneguzzi su Natalina Orlandi, questo autorizzerebbe a pensare che Sica possa aver mostrato a Sambuco una foto di Mario Meneguzzi per sapere se l’uomo visto parlare con quella che si suppone era Emanuela Orlandi fosse lui, ricevendo da Sambuco una risposta affermativa. 

Terzo: il pomeriggio del 6 luglio 1983, un uomo senza inflessioni dialettali telefonò all’Ansa facendo ritrovare le fotocopie di alcuni documenti di Emanuela Orlandi chiuse in una busta gialla, dicendo di essere uno dei rapitori della ragazza. Il particolare curioso è che, con tanti posti in giro per Roma, l’anonimo telefonista fece rinvenire la busta in un cestino in Piazza del Parlamento, a due passi dalla Camera dei deputati, proprio dove lavorava lo zio di Emanuela. A questo punto, nulla vieta di pensare e di ipotizzare che Sica, che non era certo stupido, potrebbe aver fatto recuperare il plico e prelevato le impronte digitali sulla busta e sui documenti trovando una corrispondenza con le impronte digitali di Mario Meneguzzi.

Questo potrebbe spiegare i motivi per cui Sica era convinto delle colpe di Meneguzzi, facendolo pedinare nel tentativo di raccogliere prove da portare al processo, prima che Gangi commettesse l’errore di avvisare lo zio di Emanuela di essere seguito. A quel punto, forse anche su pressioni giunte dall’alto, in particolare dal Ministero dell’Interno, Sica decise di chiudere tutti i documenti in un cassetto, lasciando il posto a Ilario Martella. Con una nota stonata: Sica trasmise a Martella anche i documenti che aveva raccolto sul caso Orlandi. Documenti che non giunsero mai nelle mani del collega e che forse potrebbe nascondere la verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. In ogni caso, risulta interessante notare come il papa lanciò l’ultimo appello a favore di Emanuela Orlandi il 28 agosto 1983, ovvero due giorni prima che saltasse fuori la storiaccia sessuale tra Natalina Orlandi e Mario Meneguzzi. Che qualcuno in Vaticano avesse detto al papa che era inutile lanciare altri appelli perché Emanuela Orlandi era morta la sera della sua scomparsa?  

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