Cronaca
Violenza di genere, gerarchizzazione della gravità e educazione sentimentale demandata alla scuola
Martina era solare, alla sua età si è spensierati, si crede all’amore che ti cambia. A non cambiare è la sottocultura di una società patriarcale che ti vorrebbe isolata, chiusa in casa, remissiva, e quando accade l’irreparabile la colpa è delle famiglie che non controllano.
31 Maggio 2025
“Napul è nu sol amaro”, cantava Pino Daniele. Una settimana fa una squadra calcistica univa sotto la stessa bandiera uomini e donne di tutte le età, periferia e città, possidenti e diseredati. Una settimana fa si era tutti dalla stessa parte, quella di una società sportiva che consentiva ad un popolo spesso maltratto, svilito, ad una terra deturpata, di rivendicare il proprio orgoglio e di unirsi in un coro di riscatto.
Il riscatto non passa solo per il calcio, il riscatto passa per la cultura, la giustizia, la libertà di pensiero, l’autonomia di giudizio, il riconoscere il valore fondante di principi che sono il cardine di ogni democrazia: il rispetto delle idee e della persona altrui.
Martina Carbonaro, vittima di femminicidio barbaramente uccisa dal fidanzato, Alessio Tucci, aveva solo 14 anni. Era mia alunna, una ragazza gentile e simpatica a cui piaceva essere coinvolta e impegnarsi.
Nella classe che frequentava è affisso al muro, su cartoncino rosso, un cartoncino rosso che riporta le parole scritte in un passo del Talmud che ha commosso Benigni che lo ha più volte recitato. In classe, abbiamo più volte preso in esame quel testo su cui abbiamo riflettuto.
“State molto attenti a non far piangere una donna: poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai suoi piedi perché debba essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale… un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata”.
Quelle parole non rispecchiano la reale condizione della donna nella società palestinese al tempo di Gesù, ma non rispecchiano, dopo più di 2000 anni, neppure la condizione della donna in tempi in cui, mai come prima , il progresso, l’informazione, la cultura, è tanto a portata di mano, anzi di tasto.
Martina non ha potuto conoscere il riscatto che la cultura e lo studio dovrebbero fornire, non ha potuto scegliere perché, proprio come accadeva più di 2000 anni fa per le donne palestinesi, è stata considerata una propaggine di un ex fidanzato che non le ha consentito di scegliere di continuare la vita senza di lui. La sua autonomia di giudizio l’aveva portata a considerare quel rapporto non più in sintonia con i propri sentimenti che si erano affievoliti, attutiti perché il suo amato Alessio si era mostrato più volte possessivo e geloso.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin sembrava aver messo un punto fermo: ha mostrato che la violenza contro le donne può raggiungere paradossali, incongruenti comportamenti in cui il carnefice, il mostro, è un maschio che considera l’amore una dipendenza emotiva, che non accetta la libertà di scelta altrui. Un femminicidio che sembrava aver cambiato la percezione di tanti nei confronti di abusi e violenze.
Una piaga, quella del femminicidio, che miete sempre più vittime di maschi spinti dall’odio e dalla vendetta generati dalla frustrazione di carnefici ossessivamente controllori, vampiri sentimentali assetati di tempo e spazio che non risparmiano un amore pulito che avrebbe voluto invecchiare insieme, ma poi subisce le inevitabili, soprattutto a quell’età, mutevoli circostanze del tempo. Era proprio col tempo che Martina aveva compreso che lo schiaffo ricevuto dall’ex fidanzato era indice di un atteggiamento poco sano.
Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca – e con lui parte di una narrazione becera ed ipocrita – si è espresso sul femminicidio di Martina enfatizzando, con la sua solita mancanza di empatia, l’età troppo giovane di una ragazza per poter avere un fidanzato. La verità è che oggi un genitore per poter proteggere e sorvegliare un figlio deve, paradossalmente, portare in casa il fidanzatino della figlia poiché – diversamente da quanto accadeva ai nostri tempi in cui ci si accertava se davvero eri a casa dell’amica o dell’amore, telefonando al genitore dell’altro – il cellulare ti consente una libertà che se mal gestita, può indurre a nascondere, celare, tenere segreti. I genitori hanno dovuto comportarsi con i figli come hanno fatto i nostri governi con le politiche securitarie. Tra le sfide che la democrazia è chiamata a sostenere in questi anni, c’è la difficile convivenza tra sicurezza e libertà, rinunciare ad un diritto per un genitore è non potersi opporre o ostacolare un rapporto, raccogliere la volontà e il desiderio di una figlia per garantire la sua incolumità fisica e psicologica.
Martina era solare, comunicativa, alla sua età si è spensierati, si crede all’amore che ti cambia. Purtroppo a non cambiare è la sottocultura di una società patriarcale che ti vorrebbe isolata, chiusa in casa, remissiva, diversamente quando accade l’irreparabile la colpa è delle famiglie che non controllano abbastanza. Il controllo che certi maschi dovrebbero esercitare è sul proprio istinto bestiale che crede di poter manipolare la vita di chi considera essere un proprio possesso, una proprietà di cui possono disporre, una bambola da telecomandare.
Uno dei principali problemi riguardanti la violenza di genere è un’implicita gerarchizzazione della gravità in base alle condizioni della vittima. La donna uccisa non deve essere troppo giovane, di un’innocenza stereotipata, deve essere casalinga oppure lavoratrice responsabile e rispettabile, deve vestire in modo poco appariscente. La donna, secondo la concezione viziata della violenza secondaria interiorizzata, in un modo o nell’altro se la va a cercare. Una narrazione raccapricciante per cui Martina se la è cercata la sciagura capitata, soprattutto perché aveva quattordici anni ed era fidanzata da due, perché sfortunatamente si è imbattuta in un diciannovenne feroce e spietato che dopo averla barbaramente uccisa e tentato di occultarne il corpo, esce a cena con gli amici, si finge affranto e inscena una partecipazione alle ricerche.
Da tempo, sento e leggo sui giornali che si ritiene urgente un’educazione ai sentimenti di cui la scuola deve farsi carico. Certamente serve educazione al consenso, serve parlare di emozioni, di rispetto, di confini, di sessualità. In realtà chiunque ne parla è forse poco avvezzo al mondo della scuola e dimentica che rifletterci su senza che vi sia un progetto – che spesso si traduce in poche ore e per pochi alunni- alla base, significa tradurre profonde tragedie in semplicistico e volgare chiacchiericcio. Bisognerebbe educare alla sconfitta, al tempo del dolore fertile, all’accettazione della fine, alla trasformazione di un sentimento, al rispetto per l’alterità, all’uguaglianza dei diritti, alla tenerezza, attraverso l’introduzione non di una materia da inventare, l’educazione sentimentale appunto, ma attraverso discipline che già esistono.
Se fossi il ministro dell’istruzione, visto che si parla di subcultura e di educazione affettiva ( variante dell’educazione civica?), proverei a contrastare il degrado urbano e umano con la cultura reale a prescindere dal tipo di scuola. Nell’offerta formativa di un istituto professionale, al pari di quanto accade nei licei, darei preponderanza alle discipline umanistiche (non solo letteratura e storia, ma comprenderei anche lingue), allo sport, al teatro, alla musica. Penserei a spazi dedicati. Inserirei, tra le altre, come materia obbligatoria, l’educazione all’immagine, che vuol dire non postare sul social e affidare la scuola alla burocrazia, ma educare al bello, al valore morale dell’immagine, che non é una foto profilo, ma un profilo etico di scelte per cui la regola non é ostacolo da aggirare, ma interiorizzazione di principi etici ( come ben diceva Kant), lo sforzo della ragione che tenta di comprendere ciò che procura ammirazione, favorire una connessione che non é una rete artificiale che spesso si traduce nel muro dell’indifferenza che esalta la superficialità e l’influencer di turno, non la prossimità e il valore aggiunto dell’essere umano. Materia di indirizzo di un professionale oltre quelle professionalizzanti, è una lingua che alimenti i sentimenti, che indirizzi attraverso percorsi disciplinari studiati per educare l’emotività, attraverso la scoperta di nuove forme di sublimazioni di sentimenti per farli poi esperire.
La famiglia, e l’intera cittadinanza, dinanzi al dolore di una vita spezzata è indignata, scossa, incredula, ferita ma la verità è che della periferia e delle zone urbane in cui regna il degrado, ci si ricorda quando a perdere la vita sono vittime innocenti, bambine, adolescenti, vite che avrebbero potuto fiorire ed invece sono state sacrificate all’incuria, alla solitudine di una politica assente che ignora i problemi reali e spesso si traduce nell’adozione di frasi e idee stereotipate, nella spettacolarizzazione del dolore che è mero sciacallaggio poiché contestualmente amplifica ed esalta modelli che fanno del denaro, del malaffare, dell’uso della spregiudicatezza, e della mancanza di rispetto, il proprio pane quotidiano. L’eroe non è l’insegnante che lavora in classe tra mille difficoltà, ma il trapper, il camorrista esaltato da serie televisive, personaggi per cui il coraggio è la cafonesca e egolatrica ricerca del piacere, per cui l’intelligenza è delinquere, evitare lo sforzo, l’impegno. Il modello da seguire, per molti ragazzi, è assumere l’atteggiamento e il codice linguistico dell’influencer, del trapper che sarebbero più meritevoli dell’insegnante perché sono capace di trasferire masse di follower in una località sciistica, o ai concerti, mentre l’insegnante è un povero sfigato che per guadagnare uno stipendio si esercita ogni giorno in acrobatiche peripezie, mettendo in discussione una professionalità sempre più svilita, calpestata, maltrattata, vituperata. Purtroppo, come spiega bene Saviano in “La paranza dei bambini”, il ceto debole delle zone degradate crede che il decoro, la considerazione, l’apprezzamento siano da riservare a chi ha la forza economica di acquistare il capo firmato, lo scooter, una bella automobile.
Cambierà qualcosa passato il clamore e il disgusto di questa ennesima e atavica efferata morte per femminicidio? Sopravviveremo al dolore lasciando che il tempo sani le ferite e a riflettori spenti si dimenticherà, buttando la solita croce sull’insegnante, o si penserà ad un sistema scolastico che si faccia realmente promotore di un’istituzione formativa e educativa?
Nell’epoca della propaganda e del marketing politico, le fake news non si riducono a una mera diffusione di menzogne, ma si configura come un complesso e articolato processo comunicativo che mira a persuadere, orientare, mobilitare e, in alcuni casi, manipolare l’opinione pubblica per conquistare e mantenere il consenso, promuovere la persuasione verso preordinate ideologie. Il governo Meloni, per esempio, nella sua appariscente rincorsa a risolvere i problemi delle periferie italiane, ha messo in campo un’operazione che avrebbe dovuto essere da falsariga per altre città “difficili”. In realtà, la riqualificazione urbana del “modello Caivano” ha visto solo palazzi ristrutturati e i centri sportivi inaugurati, mentre la realtà della città continua a sfuggire e rimangono intatti i problemi che dovrebbero essere risolti.
Guardo i palloncini che i compagni di classe di Martina lasciano volare, simbolo di una libertà e di un’adolescenza che a Martina è stata negata, guardo i segni rossi disegnati sul volto degli alunni e penso che qualche giorno fa la distesa dei papaveri rossi che si vedevano dalle finestre mi faceva pensare al quadro di Claude Monet, a quanto fosse bello il fiorire della primavera. Non sapevo ancora che, poco dopo, quell’invito alla speranza si sarebbe infranto, frantumato, bruciato. Mi vengono ora in mente le parole della canzone di De Andrè, “La guerra di Piero”. Quei papaveri che oggi non ci sono più, sono simbolo di una spensieratezza e un’adolescenza recisa in un inferno di esistenze allo sbando da cui sembra non esserci ritorno, simbolo di un disperato bisogno di credere che il sangue versato urli a lungo e forte lo strazio di chi altera narrazioni fingendo di non vedere ed ignorare.
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