Diritti
Sumud Flotilla e la Nave Dei Folli del ’92
“La vignetta l’ho vista per caso su Facebook e mi ha fatto fare un salto sulla sedia. Perché? Perché mi ha ricordato la Nave dei Folli, un episodio al quale ho partecipato quando ero giovane sia come volontario che come giornalista. Come oggi c’è chi tenta di rompere via mare l’assedio di Gaza per portare aiuti di vario tipo alla popolazione, così 33 anni fa c’è stato chi via nave e via terra ha tentato ed è riuscito a rompere il tragico assedio di Sarajevo. L’assedio purtroppo poi comunque concluso con lo sterminio di 8.000 bosniaci musulmani da parte dei serbi”.
A parlare è il giornalista Alfio Nicotra[1], esperto di geopolitica, di argomenti militari, co-presidente dell’associazione pacifista Un Ponte Per, all’epoca redattore di Liberazione e dal 1989 giornalista alla Camera dei deputati per gruppi parlamentari e uffici di presidenza di commissione, attualmente per il Gruppo Misto. Già corrispondente da vari teatri di guerra per una lunga serie di giornali, dal Manifesto a Micromega e Nigrizia.
DOMANDA – Il 7 dicembre ’92 la nave Liburnija carica di aiuti umanitari e con centinaia di pacifisti guidati dal vescovo Tonino Bello salpò da Ancona e attraccò a Spalato, in Croazia, per portarli tutti con quella che venne definita “La marcia dei 500”. Il fine era la violazione dell’assedio di Sarajevo, durato altri quattro anni, e porre fine allo sterminio – riconosciuto come genocidio – di tutti i musulmani bosniaci per mano del serbi. A invitare il vescovo a desistere furono in molti? Ci fu la valanga sia di amore che di odio dell’atteggiamento odierno verso la Global Sumud Flotilla?
RISPOSTA – La Liburnija salpò dal porto di Ancona preceduta da molta indifferenza da parte del mondo politico e dei mass media. Entusiasta e commovente era invece il sentimento che accompagnava chi partiva in quel viaggio. Lo si percepì subito dalla prima assemblea che tenemmo in uno dei capannoni del porto prima d’imbarcarci. C’era un mondo variegato non solo che afferiva ai “Beati i costruttori di pace” e Pax Cristi, ma anche dall’attivismo laico e di sinistra. Di quello strano equipaggio facevano parte anche alcuni parlamentari .
D – Ne ricorda i nomi?
R – Ricordo in particolare Eugenio Melandri, Martino Dorigo, Galileo Guidi, Chicco Crippa e Paolo Zanini. C’era anche l’ex senatore della Sinistra Indipendente Raniero La Valle , oltre a due vescovi: il presidente emerito di Pax Cristi e quello effettivo, rispettivamente monsignor Luigi Bettazzi e monsignor Tonino Bello vescovo di Molfetta. Larga parte del mondo politico fino a quel momento pensava che stavamo bluffando, che era folle solo l’idea di cercare di mettere i nostri corpi in interposizione tra le due parti in conflitto e tanto meno rompere l’assedio di Sarajevo.
I dieci ostaggi, compreso me
D – Perché la definizione di Nave dei Folli?
R – Per entrare nella capitale bosniaca bisognava attraversare il cosiddetto “viale degli sniper”, cioè dei cecchini, ed era tutte le volte, anche per noi giornalisti, una sorta di roulette russa, pensiamo per 10 autobus carichi di persone ed aiuti alimentari. Impossibile, ci dicevano, è da folli. Da questo scetticismo nasce la definizione “la nave dei folli”.
Molti pensavano che ci saremo fermati alla prima difficoltà, al primo posto di blocco di una delle tante milizie separatiste che si contendevano le spoglie della Bosnia Erzegovina. Invece con prudenza, con un confronto continuo, siamo andati avanti, fino alla periferia di Sarajevo. A quel punto i nostri ufficiali di collegamento e la nostra diplomazia dal basso fecero il miracolo: i nazionalisti serbi chiamati cetnici ci facevano passare garantendo l’incolumità della carovana, a condizione che una nostra delegazione si fosse recata nella parte di Sarajevo controllata dai serbi. Discutemmo di questo, poi si selezionò 10 volontari che si sarebbero “dati in ostaggio” ai serbi acquartierati nel quartiere di Ilidza. Io ero tra questi 10, tra di noi anche Padre Angelo Cavagna.
D – Ha contattato l’autore della vignetta, che pare sia di chi usa firmarsi RobiHood?
R – No. La vignetta mi è piaciuta molto perché è attualissima, l’ho subito condivisa su Facebook e sono stato preso dai ricordi. Oltre che dall’emozione. Non so chi sia RobiHood e non saprei come cercarlo. Approfitto di questa intervista per ringraziarlo per avere ricordato quell’episodio e averlo reso attuale.
D – È cambiato qualcosa nella percezione sociale degli stermini? Oggi c’è l’uso e l’abuso del doppiopesismo da parte di politici e parti della società?
R – In quel periodo si usciva dal clima euforico della caduta del muro di Berlino. Si parlava dei cosiddetti “dividendi di pace” post-guerra fredda, dopo tanti anni di terrore e di cortine di ferro finalmente i popoli di Europa potevano tornare ad abbracciarsi. Ma a cancellare quella prospettiva furono due fatti. La prima Guerra nel Golfo contro l’Iraq e la disgregazione della Jugoslavia con il risorgere dei nazionalismi e degli estremismi etnici. La guerra tornava così a dettare il ritmo della politica internazionale. Quella del Golfo fu un vero e proprio spartiacque: il mondo unipolare a Stelle e Strisce s’imponeva con la forza delle armi e faceva capire al mondo che la guerra fredda non l’avevano vinta i popoli, ma gli Usa e la loro alleanza militare, la Nato, destinata a diventare per decenni, una vera e propria gendarmeria globale a difesa degli interessi occidentali.
Quella nella Jugoslavia era una pozione amara, vero e proprio fiele, che siamo stati costretti a bere. L’Europa a trazione tedesca dimostrò la propria scarsa lungimiranza. Invece di proporre a tutta la Jugoslavia di entrare insieme nella Comunità Europea, si decise di incentivarne la frantumazione con la deconnessione della parte ricca da quella più povera. L’odio etnico e nazionalista sopito e stroncato durante gli anni di Tito, tornò con prepotenza alla luce e fu una guerra civile nel cuore d’Europa.
I responsabili sono ancora in galera
D – Lo sterminio di Srebrenica, che massacrò oltre 8.000 musulmani bosniaci, venne riconosciuto come genocidio e i suoi responsabili Ratko Mladic, soprannominato “il boia di Srebrenica”, e Radovan Karadzic, soprannominato “il boia di Sarajevo”, vennero arrestati dal Tribunale Penale Internazionale e condannati il primo all’ergastolo per genocidio e il secondo a 40 anni di carcere. Definizione che non sollevò proteste ed opposizioni come quelle che ci sono invece oggi contro la definizione di genocidio per lo sterminio dei palestinesi di Gaza. E arresti e condanne oggi impensabili nonostante la Corte Penale Internazionale per lo sterminio di Gaza abbia emesso il mandato di cattura per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, così come lo ha emesso per Vladimir Putin responsabile dell’invasione dell’Ucraina.
R – Mladic e Karadzic sono tuttora in carcere. Srebrenica fu una vergogna per la comunità internazionale. I caschi blu olandesi e francesi che dovevano difendere i civili quando videro arrivare le truppe del generale Mladic si scansarono e permisero di separare gli uomini adulti dalle donne e dai bambini. Fu una mattanza senza precedenti in Europa, il segno drammatico di una pulizia etnica, una vera e propria volontà genocidiaria. Certo i responsabili stanno sicuramente nei dirigenti serbo bosniaci come Radovan Karadžić, presidente dell’autoproclamata repubblica serbo-bosniaca, ma una grande responsabilità ricade sulla comunità internazionale. La missione dei caschi blu dell’Onu fu boicottata tanto che l’embargo sulle armi non fu mai effettivamente attuato. Anzi in Jugoslavia affluivano copiosi quantitativi di armi anche di parte italiana ed europea. La Francia e l’Olanda che avevano il compito di proteggere i civili a Srebrenica erano anche due paesi della Nato e qualcuno decise che bisognava screditare l’Onu per poter giustificare l’esistenza in vita del Patto Atlantico dopo che quello di Varsavia era stato sciolto. La Nato sostituì così l’Onu, lo fece bombardando ed alimentando la guerra fino all’inizio degli anni 2000, per poi portare la guerra di nuovo in Iraq, in Afghanistan e in Libia rendendo più insicuro l’intero pianeta.
D – Lei partecipò a quel viaggio come giornalista e/o come pacifista?
R – Sotto entrambe le vesti. Scrivevo per Liberazione e al contempo ero responsabile del dipartimento pace della nascente Rifondazione Comunista. A Sarajevo, tra l’altro, vi era un giornale letteralmente eroico che nonostante l’assedio continuava ad uscire ogni giorno. Si chiamava Oslobođenje che significa Liberazione, come il giornale a cui lavoravo io.
D – La vostra marcia per raggiungere Sarajevo, oggi distante da Zara 351 chilometri di strade asfaltate, l’avete fatta a piedi o con mezzi di trasporto? E quanto durò?
R – Eravamo partiti il 7 dicembre e sbarcati a Spalato il giorno dopo. L’attraversata via mare fu drammatica per le condizioni del tempo, c’era mare grosso e la vecchia nave jugoslava imbarcava acqua da più parti. Nelle cabine dove dormivo con il deputato Galilei, venimmo sbalzati dalle brande ed uscendo dalla cabina ci accorgemmo che l’acqua era entrata nel corridoio per quasi un metro. Don Tonino Bello che viaggiava in cabina con il fratello, che se non ricordo male era un medico, si era alzato i pantaloni oltre il ginocchio, così facemmo noi tutti. Ci disse delle parole di conforto, che tutto sarebbe andato bene anche se i nostri stomaci dicevano esattamente il contrario. A Spalato trovammo invece il sole e ci aspettavano una dozzina di autobus. Siamo passati dalla zona bosniaca controllata dai croati anche loro in frizione non solo con i serbi ma anche con i musulmani (pensiamo solo a ciò che fecero allo storico ponte di Mostar, fatto saltare in aria per separare la città croata da quella musulmana).
D – Mai avuto paura?
R – A Kiseljak ci fermammo per la notte e lì per la prima volta ebbi paura. Insieme a Guido Puletti, un collega di un giornale bresciano che poi sarà assassinato un anno dopo in una imboscata di una milizia musulmana sfuggita al controllo del governo di Sarajevo insieme ad altri due volontari italiani, ci buttammo sotto i banchi della scuola che ci ospitava perché due soldati croati decisamente ubriachi si erano messi a sparare in aria proprio accanto all’aula dove stavamo noi. In questo clima partimmo la mattina dopo per arrivare alle porte di Sarajevo. Ci furono lunghe contrattazioni. Si rifiutò la scorta armata dell’Onu e finalmente alle 17 ci dettero il permesso di entrare in città: il grosso verso la parte controllata dai musulmani, io e altri 9, gli “ostaggi” appunto, ci prelevarono e ci portano nel distretto di Ilidža (la parte occidentale della città in mano ai serbi), dove fummo accolti dal comandante Velibor Veselinovic,
D – Siete riusciti a entrare nella piazza principale di Sarajevo, tenuta sotto tiro dai cecchini serbi.
R – Ad Ilidža visitammo un centro per anziani che aveva tutti i vetri rotti e al loro posto del cellophane tenuto su con nastro adesivo. Faceva freddo. Anche i civili della parte serba soffrivano delle privazioni della guerra. La linea del fronte passava tra le case, a pochi metri di distanza. Dovevamo muoverci radenti ai muri perché rischiavamo di essere colpiti da qualche cecchino bosniaco. Ho visto un militare morto portato via in una carriola e nella conversazione che ebbi con alcuni soldati, il più giovane mi mostrò dei badge con la foto di alcuni poliziotti bosniaci che lui aveva ucciso. Guardavo la foto di quei giovani, avevano la stessa età di chi li aveva uccisi, forse pochi anni prima avevano frequentato le stesse scuole. Ebbi una stretta al cuore. Dormimmo nell’Hotel Terme, in cui ero stato un anno prima durante una missione di pace con Eugenio Melandri ed Alex Langer. L’hotel era semidistrutto. I letti erano pieni di bossoli di proiettili sparati. Li avevano combattuto. Per sicurezza dormimmo per terra, perché dalle finestre dall’altra parte della città, potevamo diventare obiettivi da colpire. Sull’ingresso del grosso della carovana ho solo i racconti dei miei compagni di viaggio quando ci hanno ricongiunto. So solo che tutti erano euforici, consci di aver fatto una impresa impensabile. Don Tonino disse , in un mirabile discorso, che l’Onu dei poveri era riuscita dove l’Onu dei potenti e dei ricchi aveva fallito. Sia pur per una notte l’assedio di Sarajevo era stato rotto.
R – Ci fu molta riconoscenza da parte dei civili. Abbracci, applausi, momenti di commozione.
D – Gli aiuti umanitari come sono stati consegnati?
R – Vennero consegnati ai centri di smistamento di ciò che rimaneva della protezione civile. Qualcosa portammo anche noi alla parte serba di Sarajevo.
D – Il vescovo della Nave dei Folli si è battuto anche nella sua Puglia.
R – Don Tonino fino all’ultimo si è battuto con determinazione contro lo scivolamento verso una guerra sempre più generalizzata. Si era reso conto che se vi fosse stata la volontà politica dell’Europa, una soluzione negoziata ed un cessate il fuoco si poteva ottenere da subito. Ma il partito della guerra era più forte di quello della pace. Arrivò più tardi la “pace” di Dayton che sanciva di fatto la divisione etnica prodotta dalla guerra. Lui intanto contestava la militarizzazione della sua terra, guidava le manifestazioni per impedire la realizzazione di un colossale poligono militare nelle Murge.
D – Papa Francesco nel 2021 lo ha dichiarato Venerabile. Ed è in corso la causa per dichiararlo Beato. Il tutto nel silenzio generale. Paura che venga imitato?
R – Don Tonino era un prete amato dal popolo ma scomodo per il potere. Ricordo i suoi funerali, una folla sconfinata. Anche chi lo aveva combattuto fu costretto ad andarci, ed era nelle prime file tra le autorità. Era legatissimo alla sua Puglia che guarda caso si affaccia proprio sui Balcani e nel mezzo del Mediterraneo. Diceva che la Puglia aveva due possibilità o diventare un arco di guerra proteso minaccioso nel Mediterraneo o diventare un’arca di pace. Siamo ancora lì, se togliamo la Puglia e ci mettiamo la parola Italia queste sono le due scelte che abbiamo davanti. Forse è per questa sua attualità , così alternativo alla vulgata dominante, che don Tonino è ancora temuto dal potere.
D – Lei oggi si sarebbe imbarcato anche con la Sumud Flotilla?
R – L’anno dopo essere stato a Sarajevo sono stato ancora in Jugoslavia, a Belgrado sotto le bombe Nato con l’iniziativa Mir Sada, poi in Palestina con l’organizzazione Time for Peace, per finire ai giorni d’oggi con le carovane solidali in Ucraina e al valico di Rafah nel marzo 2004[2] e nel maggio di quest’anno[3] con la collega Giulia Torrini.
Sono stato per diversi anni presidente di Un Ponte Per, una Ong pacifista che lavora in Medio Oriente.
D – E dunque?
R – Sì, mi sarei imbarcato.
POST SCRIPTUM
Il film “Hotel Sarajevo” della regista Barbara Cupisti, che documenta la guerra in Bosnia-Erzegovina del 1992, cita il viaggio in nave di Don Tonino Bello. In occasione dei 30 anni dall’evento è stato trasmesso su Rai Uno
Per chi volesse saperne di più sulla Nave dei Folli, allego i link ad alcuni dei pochi articoli che ne hanno parlato.
https://old.mosaicodipace.it/mosaico/a/1530.html
https://www.grillonews.it/don-tonino2-tonino-bello-osare-la-pace/
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Gallerie/Sarajevo-la-marcia-dei-500-vent-anni-dopo
[1] https://retepacedisarmo.org/educazione-pace/2023/nicotra-alfio/
[2] https://www.facebook.com/watch/?v=2028404397642090
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