
Immigrazione
Referendum: abbiamo un problema di cittadinanza
Il referendum sulla cittadinanza fallisce, segno della paura crescente verso l’immigrazione anche tra elettori progressisti. Ma senza nuovi italiani, l’Italia rischia declino e irrilevanza. Serve una cittadinanza più aperta, perché oggi la generosità ci conviene.
Dell’esito scontato dei referendum sul lavoro – e soprattutto del perché fosse scontato – ha detto tutto, per quanto mi riguarda, Tito Boeri su Repubblica. Quanto alle conseguenze politiche, non c’è nulla di nuovo né di interessante. Landini, che ha straperso, non si dimette, così come non si dimette Gravina dopo il disastro della Nazionale di calcio: siamo un Paese di classi dirigenti casuali e precarie, proprio per questo attaccatissime al potere.
Peggio fa chi, tra un piantino e l’altro sulle destre che diffondono fake news, da giorni spaccia numeri ad mentula canis su fantasmagorici sorpassi, ottenuti sommando mele, banane e pere: non è che siano peggiori di Trump, è che sono talmente poveretti da non avere gli anticorpi intellettuali ed etici per non comportarsi come lui – che è peggio. Ma sono fatti loro.
Mi interessa invece l’unico referendum che ho votato, quello sulla cittadinanza, che aveva il respiro che dovrebbero avere le grandi questioni civili, quelle per cui vale davvero la pena di scomodare gli elettori e tutta la macchina elettorale.
Ho votato convintamente a favore, per molte ragioni. Siamo il secondo Paese più anziano del mondo, e interi territori si stanno letteralmente svuotando, mentre non c’è impresa che non abbia difficoltà a trovare lavoratori. Abbiamo bisogno di nuovi italiani – ancora più di quelli che già oggi contribuiscono in modo essenziale a mantenere vivi e funzionanti i servizi di prossimità, l’agricoltura, la manifattura.
Gli immigrati non sono la soluzione magica al collasso demografico – che è globale, ma straordinariamente accelerato in Italia – ma sono straordinariamente necessari. Eppure, il referendum sulla cittadinanza, che proponeva di dimezzare da dieci a cinque gli anni necessari affinché un immigrato adulto potesse ottenere la cittadinanza italiana, ha registrato un livello di voti contrari quasi doppio rispetto agli altri quesiti. Secondo alcune analisi, ha trovato scettici anche molti elettori di sinistra.
È un ulteriore segno dell’esplosività del tema immigrazione, che – dalla Los Angeles in fiamme di Trump al ritorno di Farage in Inghilterra – resta materia incandescente e propellente di reazioni estreme, finanche autolesionistiche. Gli immigrati sono fondamentali per garantire la sopravvivenza di società anziane, lente e bisognose di linfa nuova e di cure. Ma le stesse persone che ne hanno bisogno li rifiutano, li vogliono centellinati e deportati. Anche chi non è d’accordo con queste soluzioni estreme, purtroppo, è spesso tiepido verso qualunque apertura. Sembra quasi che, perso tutto il resto, l’Occidente sia abbarbicato – contro logica – al privilegio della propria identità, entro la quale rinchiudersi. Quando per secoli ha accolto e, anche violentemente ma non solo, plasmato quella altrui.
Parte di questa difesa cieca della rendita di posizione assegnata dal caso è anche l’incomprensibile stretta improvvisa sulla cittadinanza per gli italici, i discendenti degli emigrati italiani. Tra loro – che ho cominciato a conoscere e frequentare – spesso troviamo membri delle élite dei Paesi in cui vivono: un potenziale di soft power per l’Italia straordinario, in gran parte inespresso, che ora si vuole stupidamente sacrificare, solo perché funziona elettoralmente.
Anche il ruolo, comunque tutt’altro che trascurabile, degli imprenditori della paura non sarebbe così rilevante se non poggiasse – e non sfruttasse – sentimenti profondi e radicati. Sentimenti che è fallimentare affrontare con le armi spuntate dell’etica o con l’utopia dell’abbattimento dei confini.
Serve altro.
Serve innanzitutto una riflessione seria sul perché l’immigrazione faccia sempre più paura, anche di fronte all’evidente bisogno delle stesse persone che non vogliamo. Una riflessione vecchia scuola: ci si chiude in una stanza, si studia, si discute, e poi – eventualmente – si posta, solo se si ha qualcosa da dire.
Serve poi un approccio più laico e generoso – ma serio – alla cittadinanza. Un Paese che perde abitanti a getto continuo perde anche peso politico ed economico. Abbiamo bisogno di più italiani, non di trasformare quel che siamo in un esclusivo circolo della caccia, pieno di vecchi e con le pareti scrostate. Tanto i poveri del mondo quanto i cervelli in fuga da Harvard devono desiderare di vivere qui e di diventare parte della nostra comunità. Perché questo desiderio ci serve, nella pratica e anche per risollevare il nostro morale a terra.
Ci sono problemi di sicurezza? Certo, quando si ammassano i poveri e si scontrano culture ed etiche diverse. Ma si risolveranno. Sicuramente prima – e meglio – del rischio di diventare un Paese desertificato e insignificante.
È una generosità che ci conviene.
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