Le relazioni umane sono fondamentali per una società sana ed equilibrata.

Italia

La relazione è tutto. E l’abbiamo dimenticato

La relazione non è un accessorio. È la sostanza di cui siamo fatti

6 Maggio 2025

Viviamo in una società che, pur essendo più connessa che mai, sembra aver smarrito ogni senso di comunità, l’importanza delle relazioni umane. L’individualismo, esaltato come forma estrema di libertà, ha prodotto una solitudine strutturale. È la “società liquida” descritta da Bauman, dove i legami si dissolvono e l’identità si frammenta.

L’epoca contemporanea, che celebra l’autorealizzazione e il successo personale, ha minato le fondamenta del vivere insieme. Non siamo semplicemente soli. Siamo, come direbbe Sennett, disabituati alla cooperazione. Il riconoscimento, un tempo costruito nel rapporto con l’altro, si è trasformato in un monologo narcisistico alla ricerca di visibilità.

La separazione tra l’individuo e il suo contesto sociale non è più solo un disagio privato, ma la radice di una crisi culturale. Eva Illouz ha parlato di “sofferenza emotiva come prodotto sociale”. La solitudine che viviamo non è un accidente, ma una costruzione sistemica. È l’effetto di un modello economico e relazionale che disgrega i legami, che trasforma le emozioni in beni da consumo, che ci abitua alla prestazione anche nei sentimenti. Non soffriamo solo per mancanza d’amore, ma per l’idea che l’amore debba sempre dimostrare qualcosa. La nostra intimità è diventata una vetrina, e la vulnerabilità un difetto da nascondere.

La retorica della connessione permanente non ha generato prossimità, ma ansia da esposizione. Anche l’angoscia è diventata una condizione diffusa ma priva di voce collettiva. L’altro non è più compagno di strada, ma concorrente o intruso. Perfino il dolore, condiviso un tempo nella comunità, oggi si consuma in silenzio.

Un tempo, le piazze, le chiese, i cortili erano luoghi di sosta e scambio. Ora viviamo in spazi attraversati da solitudini parallele. Il cittadino si è fatto spettatore, spesso impotente, della propria irrilevanza. Il vuoto lasciato dai legami si riempie di consumo. Ma nessun oggetto, nessuna performance, nessun algoritmo può sostituire la forza dell’incontro.

La sfida non è (solo) politica, ma antropologica. Non basta rifondare le istituzioni. Occorre ripensare il volto dell’umano. La relazione non è un accessorio, è la sostanza di cui siamo fatti. Senza relazione non c’è soggetto, non c’è storia, non c’è futuro. Eppure, abbiamo disimparato a stare nell’altro. A sopportare la sua lentezza, la sua inadeguatezza, la sua differenza.

La speranza non si annuncia. Non alza la voce. Non seduce. Accade nei gesti minimi. Nell’attesa silenziosa. Nella fedeltà a ciò che si è incontrato. È una parola che non cerca pubblico, ma verità. È uno sguardo che resta. Una presenza che accompagna. E in questo tempo di solitudini urlate, la forma più radicale di resistenza è custodire il legame.

Resistere non significa imporsi. Significa tenere. Tenere il filo, anche quando si spezza. Tenere la memoria, anche quando fa male. Tenere l’altro, anche quando non si lascia prendere. Perché ogni volta che due solitudini si riconoscono, nasce una comunità. Minima. Provvisoria. Ma reale. Forse la comunità non si costruisce. Si custodisce. Come un fuoco, in silenzio.

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