
Italia
Povertà assoluta
Non un concetto. Non una statistica. Ma un elenco di cose che mancano. E che nessuno racconta
“Povertà assoluta”. La definizione appare estraniante, quasi surreale. Eppure, non è un concetto o un’astrazione. Bensì un elenco di cose mancanti. Oggi siamo a 5,7 milioni di persone in questa condizione. Quasi una su dieci. Non vivono nei margini. Vivono dentro il corpo della società. Sono parte del Paese che lavora, studia, si ammala, cresce figli. Ma con un grado in meno. Una possibilità in meno. Una certezza in meno (Fonte: Istat, “Goal 1. Povertà assoluta”, aprile 2024). Non è solo crescita quantitativa. È trasformazione qualitativa.
Nel 2005, sempre secondo l’Istat, vivevano in povertà assoluta circa 1,9 milioni di persone, il 3,3 % della popolazione. Era un dato già preoccupante, ma ancora circoscritto, contenuto dentro i margini di un sistema che, seppur imperfetto, prometteva protezione (Fonte: Istat, “Condizioni di vita”, 2005). Nel 2008 si interrompono le serie. Viene aggiornata la metodologia. L’Istat ridefinisce il paniere di beni essenziali, i criteri di spesa, le soglie. La povertà smette di essere solo una mancanza e diventa una distanza. Una distanza crescente tra chi riesce e chi non può (Fonte: Istat, “La povertà in Italia”, nota metodologica 2009).
Dal 2009 riprendono le rilevazioni annuali. I numeri iniziano a salire lentamente. Nel 2012, anno della crisi più cupa, i poveri assoluti sono 3,4 milioni. L’anno dopo, superano quota 4 milioni. Poi il Covid. Poi l’inflazione. E nel 2021, la soglia si spezza: 5,6 milioni. Mai così tanti. Mai così inascoltati (Fonte: Istat, “La povertà in Italia”, report annuali 2012–2021).
La povertà non colpisce più solo i disoccupati cronici o gli anziani isolati. Riguarda anche chi ha un contratto, una casa, un diploma. Ma non abbastanza soldi per far durare la settimana. Dal 2005 a oggi, la povertà assoluta è quasi triplicata. Non perché siano peggiorati gli individui, ma perché è cambiato il Paese. È saltato l’equilibrio tra lavoro e vita. Tra bisogno e risposta. Tra urgenza e presenza. Che cosa significa, davvero? Significa avere un frigorifero vuoto, che fa rumore anche spento. Una visita medica che non si prenota più. Un figlio che inventa una scusa per non partecipare alla gita.
Al supermercato, il lettore del bancomat si blocca. Una scusa, un sorriso, mentre qualcuno dietro sospira. Il buono pasto finisce prima del pranzo. La carta prepagata si ferma a dodici euro. Una dentiera mai rifatta. Il materasso sfondato. L’umidità che risale dai muri. E in cucina, l’acqua bolle. Ma dentro non c’è niente. Povertà assoluta significa che tutto ha un prezzo, anche respirare. Significa che la parola “scelta” smette di avere senso. Non si sceglie. Si subisce. Si aspetta che qualcosa arrivi. Si spera che non serva nulla di troppo, nulla di urgente, nulla di caro.
Povertà assoluta vuol dire che la vita non è più una costruzione, ma una sopravvivenza a puntate. Nessuno lo scrive nei report, ma la cosa che più si consuma nella povertà è la fiducia. Non quella verso lo Stato. Quella verso sé stessi. È un modo diverso di guardare il tempo. Ogni giorno è un prestito. Ogni notte è una tassa sull’ansia. Chi vive in povertà assoluta non fa progetti. Aspetta. Non immagina. Calcola. Non sbaglia, perché non può permetterselo. Si sveglia presto non per vivere di più, ma per cercare prima. Prima che finisca il pane scontato. Prima che chiuda l’ufficio. Prima che qualcuno si accorga che non può pagare. È un modo diverso di abitare la città. Si cammina a piedi non per scelta, ma per necessità. Si evita di guardare le vetrine. Si conosce l’orario esatto in cui buttano il pane vecchio. Si sa quali farmacie regalano i campioni gratuiti. Si impara a ringraziare anche quando non arriva niente. Eppure, queste vite ci somigliano. Hanno figli. Hanno lavoro. Hanno perfino un contratto. Ma non basta. Non basta quasi mai. Perché la soglia oggi non è più quella dell’esclusione. È quella dell’instabilità. Non è chi sta fuori. È chi rischia di cadere ogni giorno. Chi vive sulla cresta dell’equilibrio senza rete, senza margine, senza errore possibile. E allora quando si dice “povertà assoluta”, si dica tutto, senza infingimenti. Si usino parole appropriate: fatica strutturale, attesa cronicizzata, disuguaglianza istituzionalizzata. E si dica che la vera emergenza non è il numero. È il silenzio che lo circonda.
Il parlamento dovrebbe prendere atto del problema e creare un ministero che operi con piani pluriennali ed obiettivi realistici di lungo periodo, che dovrà categorizzare i poveri, a partire dai “poverissimi”, cioè senza fissa dimora e cibo, per formulare le giuste strategie.
Innanzitutto occorre che lo stato prenda il posto della CARITAS, che è un pozzo nero costoso che opera nel breve termine, cioè non vuole e non può migliorare le cose nel lungo periodo da un punto di vista strutturale, mentre lo stato potrebbe.
Quei soldi servono, e parliamo di miliardi.
Per il quasi scomparso ceto medio, l’unica soluzione è mantenere i prezzi bassi attraverso la concorrenza e una adeguata pubblicità dei supermercati e prodotti più economici, ma qualitativamente garantiti.
La tassazione va adeguata ai tempi che viviamo: via la FlatTax, misura populista, ingiusta e pure a spese dello stato, a favore di più scaglioni che aumentino le tasse ai milionari (anche solamente un poco) e le diminuisca ai rediti bassi (il meccanismo delle detrazioni è farraginoso e non va).