Italia

Una grande mobilitazione. E ora?

Affronto, con un taglio più da militante, il tema già affrontato da Jacopo Tondelli, di cui condivido molte osservazioni, non la conclusione che l’Europa sia l’unica prospettiva politica. Le classi dominanti europee sono socie di minoranza, pur riottose, di Netanyahu e Trump.

7 Ottobre 2025

Le manifestazioni e gli scioperi di queste settimane contro le orrende imprese dell’imperialismo in Medio Oriente, non solo dello Stato di Israele, ma di tutti quei governi che ne hanno in qualche modo agevolato il “lavoro sporco” (per citare il cancelliere Merz), segnano un ritorno delle masse, e in particolare dei lavoratori, al centro della scena politica italiana. A centinaia di migliaia si sono mobilitati dando vita a cortei come non se ne vedevano ormai tempo. Tuttavia, aldilà dei numeri, è la composizione l’aspetto più rilevante: giovani, lavoratori, gente che non andava a un corteo da anni o ci andava per la prima volta, il ritorno degli insegnanti a fianco degli studenti e poi esponenti dell’associazionismo, del volontariato, del mondo cattolico. Partecipazione che si è vista non solo in piazza, ma anche nella corsa a donare aiuti per la popolazione di Gaza. Il caso di Genova, dove in pochi giorni si è raccolto il 500% dell’obiettivo prefissato, è emblematico.

La Flotilla, pur col suo incerto profilo politico e le interlocutorie dinamiche interne, ha fatto da catalizzatore del movimento, appassionando milioni di persone in tutto il mondo, facendo uscire dai gangheri la Meloni e mettendo la parola fine al mito della legalità internazionale. Come nel Libro dei Salmi – “Lo stolto ha detto in cuor suo: ‘Dio non c’è.’” – Tajani, non in cuor suo ma a Porta a Porta, si è lasciato sfuggire che il diritto c’è solo quando può essere impugnato contro il nemico. E questo da solo basta a ringraziare la Flotilla.

I lavoratori hanno dato un contributo fondamentale. Il loro merito principale è stato costringere la CGIL e il variegato mondo del sindacalismo di base al completo a scioperare e a manifestare insieme per la prima volta nella storia, aprendo delle crepe persino nella CISL fedele al suo ruolo di stampella del governo. L’ex segretario generale CISL Savino Pezzotta ha scritto: “Va sottolineato che erano presenti molti giovani e tante persone comuni, forse alla loro prima esperienza di partecipazione ad una iniziativa indetta da un sindacato. Con la loro presenza hanno incrinato la pervasività del linguaggio conformista di politici, dei media e dei social, scegliendo di parlare con la propria voce. Non siamo di fronte a un programma politico definito, ma a un moto di indignazione che si è trasformato in un atto di libertà, nel desiderio di esprimersi, di essere ascoltati, di affermare con la propria presenza: «Noi ci siamo».” E ha concluso: “Unico rammarico: l’assenza del mio sindacato, la CISL.” Del resto non sono pochi gli iscritti a CISL e UIL che hanno scioperato.

I dati sull’adesione allo sciopero del 3 ottobre, che abbiamo raccolto in modo frammentario, in assenza di numeri ufficiali credibili, testimoniano che la sensibilità dei lavoratori per ciò che sta avvenendo sulla sponda orientale del mediterraneo è elevata: il 55% dei treni garantiti non è partito (anche se in parte sono stati fermati dal blocco dei binari). A Roma nel trasporto pubblico nei turni del mattino l’adesione è stata del 27% (dato aziendale). A Milano non ci sono dati, ma due linee della metro sono state chiuse e su un’altra il servizio ha subito riduzioni. Genova ha visto un’adesione del 40% nel servizio urbano (il 22 settembre era stato il 50%) e del 28% nell’extraurbano. Nella logistica del Lazio il 30%, con buone adesioni anche nei magazzini Amazon, anche in altre regioni. A Milano il 70% dei dipendenti Feltrinelli ha scioperato, a Roma circa la metà. Alte le adesioni degli insegnanti, che questa volta si sono uniti ai loro allievi.

È un patrimonio da tutelare e trattare con cura. I partiti politici stanno facendo un uso del tutto strumentale della mobilitazione. La destra l’attacca col livore di chi sa di essere nel mirino anche di un pezzo del suo elettorato e anche dentro FdI c’è chi non ha gradito affatto l’atteggiamento sprezzante e “antipatriottico” della Meloni. Il “campo largo”, rendendosene conto, è saltato sul carro dei manifestanti pensando illudendosi di utilizzare elettoralmente il genocidio come ha fatto col “fascismo” (a giudicare da Marche e Calabria con analoghi risultati). Per il resto la sinistra è divisa tra chi coltiva l’illusione della rivincita e chi bada cinicamente a capitalizzare i propri risultati rispetto alla concorrenza. Chi ha scioperato ed è sceso in piazza merita di meglio.

Per non vanificare la mobilitazione bisogna innanzitutto capirne la natura difensiva. Non stiamo avanzando, stiamo tentando di non essere spazzati via. La gente è scesa in piazza per difendersi dall’orrore delle immagini di Gaza ed esorcizzare un intollerabile senso di impotenza. Insieme alla percezione che rivolgersi ai partiti e alle istituzioni è inutile è questo solo che l’ha unita. Nella marea che sabato riempiva le vie di Roma c’era di tutto: da chi grida la sua rabbia a chi pensa “oggi riempiamo le piazze domani le urne”, da chi si ostina come in una seduta spiritica a evocare il fantasma della “legalità” a chi canta “Intifada fino alla vittoria”, come un disco incantato dai tempi di Arafat o addirittura celebra il 7 ottobre (ma in una tale folla, per fortuna, sono posizioni diluite fino all’irrilevanza). C’era persino la consigliera dell’ENI e pasionaria delle armi a Kiev Nathalie Tocci.

Le grandi mobilitazioni portano alla luce mutamenti carsici maturati con lentezza nella psicologia delle masse e a loro volta ne innescano di nuovi. I lavoratori italiani sono usciti da un periodo di torpore, hanno visto Salvini minacciare la precettazione ma costretto a rinunciarvi e il Decreto sicurezza ridotto a carta straccia (a Roma la Questura ha autorizzato i manifestanti a bloccare tangenziale e A24). Hanno visto segmenti di padronato frastornati dall’inattesa impennata della CGIL. A Genova, dove pochi mesi fa per garantire il monopolio confederale USB era stata esclusa dalle elezioni della RSU in uno dei più grandi terminal container del Mediterraneo, il VTE, sotto il controllo dell’Autorità Portuale di Singapore, pochi giorni fa il portavoce dei terminalisti di Confindustria ha scritto al prefetto e al questore puntando il dito contro la CGIL, che per ben due volte in due settimane ha violato le regole contrattuali sugli scioperi, chiedendo al primo di sanzionarla e al secondo di garantire il libero accesso ai luoghi di lavoro a chi non sciopera. I lavoratori, insomma, hanno avuto un saggio della propria (potenziale) forza.

I giovani sono accorsi in massa alle manifestazioni, in particolare gli studenti. La pervasività delle immagini di morte e distruzione non ha risparmiato neppure le scuole primarie. A Roma, in una scuola elementare di Garbatella, il quartiere della Meloni, mi hanno raccontato che i bambini hanno disegnato dei carri armati che sparano ai bambini. Gli studenti sono stati affiancati dai propri docenti e non solo in piazza. Pochi giorni fa nel quartiere romano di Monteverde, in un liceo situato in un edificio che ospita anche una sinagoga, una ventina di esponenti della comunità ebraica all’uscita da scuola ha aggredito gli studenti, rei di aver discusso della Flotilla nel cortile della scuola e scandito quattro volte Free Free Palestine. A febbraio alcuni studenti dello stesso liceo mi avevano confessato il senso di estraneità verso gli insegnanti, descritti come “l’esercito della presidenza”, timorosi di avvicinarsi ai temi “politici”, pronti a ribattere alle critiche rivolte all’istituto: “Ma che ti frega? Tanto tra due anni te ne vai”. L’altro giorno, però, la vicepreside e alcuni di quegli insegnanti sono intervenuti per difenderli, rimediando la loro dose di spintoni e male parole. Potrebbe avere qualche effetto.

Al di fuori delle rivoluzioni ogni mobilitazione raggiunge l’apice e tende naturalmente a scemare, per poi riprendere quando sopraggiungono nuove ragioni di malcontento. Succederà presumibilmente anche questa volta. Illudersi che le manifestazioni continueranno fino alla caduta del governo Meloni, alla resurrezione della “legalità internazionale” o a un intervento finalmente deciso della “democratica Europa” è come aspettare Babbo Natale. Pensare che chi ieri è andato in piazza domani andrà a votare l’opposizione vuol dire non aver capito che la gente è scesa in piazza anche per compensare l’inerzia di partiti usi a chiederle il voto in cambio di vane promesse. Quando l’onda scema, però, non lascia il nulla, ma un sedimento di coscienza politica che va raccolto e coltivato con cura.

La Flotilla ha dimostrato che intanto che agitano le bandiere del nazionalismo le élites tra loro sono solidali e internazionaliste. Il governo “sovranista” di Meloni e Salvini ha ammesso di aver negoziato con Netanyahu l’arresto degli attivisti della Flotilla in acque internazionali, sostituendo “prima gli italiani” con “prima i nostri soci d’affari”. Il tanto celebrato Sanchez, come la Meloni ed Erdogan, ha inviato una nave militare per scortare la Flotilla nelle braccia di Netanyahu. Bruxelles neanche quello. Pur minacciandosi e facendosi la guerra l’un l’altra le classi dominanti europee, americane, mediorientali, russe e cinesi trattano, fanno affari, si coordinano. Sulle nostre spalle.

Trump si spartisce con Putin le terre rare dell’Ucraina e con Blair e l’Europa la ricostruzione di Gaza. Gli industriali friulani Danieli hanno continuato a fornire acciaio ai russi per farne armi ed ENI a sfruttare giacimenti di gas in società con Lukoil. Ma nessuno fa una piega. Chi è per l’internazionalismo degli oppressi, invece, viene bollato a reti unificate come putiniano, così come nel movimento per Gaza una parte per fortuna minoritaria chiama “complice del sionismo” chi guarda con interesse a chi in Israele sciopera contro Netanyahu e venerdì, davanti a un varco di accesso alla Striscia, chiedeva la liberazione “degli attivisti della Flotilla e di tutti gli ostaggi di Israele”.

I nazionalisti europei, quelli sgarruppati alla Salvini come i patrioti in doppio petto alla Mattarella, non sono mossi dalle ideologie. Come ha ricordato l’economista Brancaccio agli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia occupata a Napoli: “Quando Giorgia Meloni scalpita per ottenere da Trump un posto nel ‘consiglio di pace’ per la Palestina, è perché rappresenta gli interessi dei proprietari che intendono partecipare al grande affare annunciato. Perché vuol sedere a quel tavolo quando verrà distribuito l’oro sul sangue versato. E quando Matteo Salvini dichiara che il paese non verrà fermato dagli agitatori, è perché vuole comunicare: ‘Voi non disturbate mentre noi sfruttiamo e accumuliamo’. Se ci pensate bene, sono le stesse parole d’ordine di sempre. Valgono per il genocidio dei palestinesi, valgono per la distruzione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori nel cosiddetto mondo occidentale avanzato”.

Brancaccio ha ragione: dietro i dissidi tra Trump e l’Europa, tra BRICS e NATO, persino tra borghesie arabe, israeliane e palestinesi (fino a poco prima del 7 di ottobre in trattativa per ricominciare a spartirsi i lauti profitti delle case di gioco a Gerico: nel 2000, quando furono chiuse, due milioni di dollari al giorno), non ci sono questioni ideologiche o religiose, ma potere e denaro. In ballo ci sono su un piatto i rapporti di forza commerciali, i confini delle rispettive sfere d’influenza e la divisione della spesa militare, sull’altro la ricostruzione di Gaza e dell’Ucraina, terre rare e giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. E la “Pace” di cui si discute oggi sarà in realtà un colossale accordo di spartizione in cui tutti hanno qualcosa da rivendicare, persino le classi dominanti delle nazioni sconfitte, che, possiamo esserne certi, avranno anch’esse la loro piccola percentuale.

Gaza e gli altri conflitti in Medio Oriente, l’Ucraina, i dazi, il riarmo europeo coi soldi della scuola e della sanità e la militarizzazione della scuola e del lavoro, la retorica dell’Occidente democratico assediato dai barbari, che hanno preso da noi cultura e scienza – sennò sarebbero ancora selvaggi, come pontificano i volti liberal dell’imperialismo europeo Vecchioni, Augias, Rampini – sono tutti tasselli dello stesso mosaico. Se dopo i cortei dei giorni scorsi in una scuola o in un posto di lavoro un pugno di studenti e di lavoratori ha cominciato a prenderne coscienza, il nostro tempo va dedicato a loro, a intercettare e rispondere ai loro residui dubbi, alla loro volontà di dare un seguito a quei cortei continuando a impegnarsi, alle loro esigenze ideali, ma anche ai loro problemi quotidiani in classe e sul posto di lavoro. Concentriamoci su questo e lasciamo campagne elettorali e diritto internazionale agli appassionati di spiritismo.

Questo intervento è l’editoriale della newsletter di PuntoCritico.info del 7 ottobre 2025.

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