Mondo
1326 giorni, un viaggio in Ucraina
“Il fatto che siate arrivati da così lontano, nel pericolo, obbligati da nessuno, per noi è stato un grande sostegno e quando tornerete a casa vorrei che raccontaste ai vostri familiari e agli amici il terrore di questa guerra.”
Mariia Chernenko, Sindaco di Rohan ( Kharkiv )
Vi sono 1.100 chilometri dalla Polonia alla grande città vicino al confine orientale con la Russia, li abbiamo attraversati insieme agli amici del MEAN (Movimento Europeo Azione Nonviolenta) in un viaggio in treno, una sorta di freccia nello spazio e nel tempo, verso est.Dalle immagini della metropoli occidentale di Kyiv e poi, dopo il fiume Dnepr, lungo la Poltava, l’ampia zona di pianure e colline, paesaggi coltivati, radure, centri e piccoli villaggi, l’antica regione abitata da Sciti e Sarmati, Goti e Unni, passata nella sua storia sotto l’influenza di vari stati, dai regni di Polonia, Lituania e Svezia, e poi dell’impero russo e sovietico, fino a Kharkiv, la città fondata dai cosacchi ucraini per la difesa contro i tatari, il più grande centro industriale, commerciale e culturale della regione, abitato da un milione e mezzo di persone a 25 chilometri dalla linea del fronte.
Eravamo insieme a singoli, associazioni, sindaci e consiglieri in un progetto che dal 2022 tesse relazioni dirette con tante realtà ucraine: gemellaggi tra città, aiuti umanitari, accoglienze di ragazzi e famiglie in Italia e il sostegno alla proposta dei corpi civili di pace europei.
Insieme al nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas, al vescovo cattolico, greco-cattolico e ortodosso, ci siamo riuniti in preghiera a Kyiv e Kharkiv, in onore delle vittime e dei caduti di tutte le guerre. Abbiamo celebrato un giubileo con gli ucraini, dall’Ucraina. Le donne dell’Institute for Peace della città di Černivci hanno raccontato il loro lavoro sulla giustizia riparativa: sono mediatrici, pedagogiste, psicologhe.La chiesa greco-ortodossa di Kharkiv ha trasformato lo spazio fuori la nuova basilica incompleta in un magazzino di solidarietà: lo chiamano “Punto dell’Invincibilità”, dove ogni settimana si aiutano circa 2.000 persone.
In un paesaggio spazzato dal vento e attraversato da centinaia di bandiere ucraine che sventolano sulle tombe, in un solo anno, il cimitero si è riempito di caduti. È uno scenario straziante: volti giovani, storie spezzate. Ognuno di noi porta un garofano e una rosa rossa da lasciare su una tomba; dei genitori seduti su una panchina parlano al figlio morto.
All’università mostrano le aule colpite 24 volte e sempre rimesse in funzione. Con ragazze che ogni giorno sfidano gli allarmi aerei per continuare a formarsi, mentre alla fine docenti, studenti, attivisti si prendono per mano e formano tre cerchi intrecciati: Il Terzo Paradiso
Sono passati tre anni e otto mesi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, una guerra che appare totale e infinita, di fronte alla quale sentiamo l’inadeguatezza di tutte le categorie della nostra tradizione culturale e politica nel leggere il grumo violento che stiamo attraversando.
E il susseguirsi di accadimenti storici in breve tempo ha fatto rovine di un’epoca, mentre sul tappeto ormai vi è il tema del destino di una civiltà giuridica e statuale e la necessità di una sua rifondazione. L’architettura delle Nazioni Unite, eretta a garanzia di un’era di cooperazione e pace, si manifesta oggi nella sua disgregazione strutturale, incapace di contenere l’uso della forza come strumento primario di risoluzione dei conflitti. E in assenza di una giustizia internazionale e di un’autorità terza dotata degli strumenti anche sanzionatori del diritto internazionale, è riemersa l’anarchia e la logica della forza e della supremazia.
Stati, apparati militari e strutture di comando lottano per il potere, l’espansione territoriale e l’egemonia.Le strutture di potere si stanno riposizionando, ma senza ancora la capacità di creare un nuovo ordine globale. La “volontà di potenza” e la “logica amico/nemico” sono tornate al centro delle relazioni internazionali, rendendo la dignità dei popoli e i diritti umani mere pedine di scambio. Un idealismo tradotto in meri appelli alla concordia si è rivelato sino a ora solo un esercizio di riassicurazione per noi, incapace di incidere sulla realtà, mentre il numero delle vittime svanisce in un’indifferenza che normalizza l’orrore e il significato.
C’è chi ha finito con il “comprendere” la guerra imposta dall’invasione russa, sminuendo la reazione difensiva degli ucraini, immemore di cosa fu, nel suo concreto attuarsi, la resistenza italiana ed europea di 80 anni fa, mentre si è dato credito a tutte le false notizie e le mitografie, fatte circolare ad arte dalla propaganda del regime russo. Certo, oggi non vi sono poteri capaci di trattenere il male. Prometeo è incatenato ad una roccia ai confini della Terra, mentre ovunque si scoperchiano nuovi vasi di Pandora.
Non si tratta di condannare ma di agire, di comprendere le dinamiche di forza che modellano le azioni della politica degli stati e di operare per un futuro in cui la diplomazia e la coesistenza, anche se imperfetta, sia ancora possibile. Negli Stati dell’Unione Europea in particolare, si profila l’imperativo di una maturità che imponga l’abbandono di ogni residua ingenuità geopolitica. La coesione sociale interna e una proiezione esterna assertiva, che passa attraverso anche una politica di difesa comune, senza la quale l’Europa rischia di diventare solo un mercato da contendere, un vaso di coccio nelle dinamiche globali, rispetto alle altre superpotenze, anziché essere attore determinante e protagonista.
Bisognerebbe capire come si è arrivati a tutto ciò, perché sia riemersa sul piano geopolitico la logica della guerra come arcana imperii. E ora, in un occidente apparentemente in ritirata, prevale l’orizzontalità di un sentire comune fatto di risentimenti, disincanti e insicurezze.
Apparteniamo ad una generazione che nel 1989 è andata a raccogliere i pezzi del muro di Berlino in frantumi, sperando nell’arrivo di una storia nuova che non è mai arrivata.Abbiamo visto di nuovo la guerra nei Balcani, Srebrenica, e poi la speranza della pace tra i grandi e poi ancora lo schianto delle Torri Gemelle con le sue tremila anime e ancora guerre a oriente e poi in Ucraina ancora le fosse comuni e infine la nuova carneficina mediorientale. Quante Srebrenica, quante Bucha, quanti cimiteri può contenere la storia? quanti sicari dell’anima e maschere per un massacro?
Nessuno può negare gli straordinari progressi scientifici, tecnici, medici della nostra civiltà, eppure, come se avessimo stipulato un patto faustiano con Mefistofele, a questi progressi sembra corrispondere un’anima nera che in alcuni momenti avvolge completamente la nostra storia di viventi. Arrivati a questo punto, pensieri millenaristici potrebbero persino mettere in dubbio il futuro della nostra civiltà; del resto fu Claude Lévi-Strauss a pronunciare su questo parole definitive: “Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui”.
Ma oggi siamo ancora qui, non possiamo limitarci a evocare il male, la compassione, giudicando senza assumersi mai responsabilità. Le comunità degli uomini hanno il dovere di affrontare il male e tentare una soluzione. Penso a Bonhoeffer di Resistenza e Resa, di Sequela: “La Chiesa non sta dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio” e nel cielo livido della dittatura e dell’oppressione occorre pregare ma fare anche ciò che è giusto per gli uomini”.
Per questo era importante sostenere il messaggio del MEAN: la condivisione di un dramma e di un dolore, della guerra, si può condividere realmente solo in presenza, solo nel contatto anche dei nostri corpi, della nostra fisicità, della nostra anima.
Dai sindaci incontrati nei bunker alle fughe di Bach di un organo tornato a suonare per noi nel buio della sera, dai ragazzi che chattano e parlano apparentemente sereni nella metropolitana e nei locali alle donne ucraine che raccontano di ascolto e comprensione, dagli allarmi antiaereo sul telefono che suonano sempre, alla paura e alla morte che corre lungo i giardini di Maidan tra le immagini dei caduti, mi inchino al coraggio, alla capacità di resistere di queste donne e uomini , di una generazione che ha fatto della difesa del proprio paese una parte della costruzione della propria identità individuale e collettiva.
I bagliori e le esplosioni che abbiamo visto e sentito a Leopoli nel viaggio di rientro, ci hanno reso più o meno consapevoli di quello che gli ucraini stanno provando da 1.326 giorni e della reale posta in gioco oltre la pace: difendere e proteggere la democrazia e la libertà. Sempre. Con la speranza, la certezza che arriverà il giorno in cui torneremo persino ad ascoltare insieme, come nei quadri di un esposizione, le musiche di Musorgskij e Ravel dedicate alla grande porta di Kyiv. Verrà quel giorno…quando saremo tutti di nuovo liberi.
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