Mondo
Il nostro futuro prossimo venturo nello specchio della “pace” di Trump
Il fatto che attorno a Zelensky vi siano oggi i leader europei per non lasciarlo solo nella trattativa con Trump è il segno del totale sovvertimento politico di questa Presidenza USA, un pericolo per il suo stesso Paese, e che ha di fatto cancellato una secolare condivisione atlantica che ha consentito anche la transizione post 1989. È segno anche della alta valenza simbolica, geopolitica e strategica per la UE della guerra in Ucraina, situazione incompresa invece dalla società civile che (eccetto scandinavi e baltici) in larga parte ha dimostrato inconsapevolezza, scarsa capacità di lettura politica delle implicazioni sottese all’invasione russa, a differenza di parte della propria classe dirigente, che si è invece assunta anche il coraggio di scelte impopolari come il sostegno militare di Kyiv. Mentre si può affermare che nell’opinione pubblica la identificazione con la causa palestinese è stata pressoché totale, l’Ucraina è stata lasciata al proprio destino, incompresa.
A parte le denunce sulla grave condizione umanitaria, la solidarietà politica per Gaza, come scrive anche Cinzia Sciuto su MicroMega, è la naturale prosecuzione di un paradigma politico consolidato nel nostro dibattito pubblico: la contestazione autocritica dell’Occidente come colpevole e complice per definizione, ed Israele come sua costola. Sostenere politicamente i palestinesi diventa quindi un gesto significativo ma che non mette in discussione nulla, anzi si inserisce e consolida una storica solidarietà della società civile europea, fin dagli anni settanta/ottanta del secolo scorso, protagonisti allora Arafat e l’OLP. Dalla parte degli ucraini, invece, costringerebbe a mettere in discussione gli schemi ideologici con cui si legge la realtà, a sfidare e dissentire dalla propria comfort zone della comunità virtuale, politica o associativa di riferimento, a riconoscere che l’aggressore per una volta non è l’Occidente, ma la Russia erede della storia sovietica, e che a resistere non è un povero popolo colonizzato del Sud globale, ma un popolo “bianco”, che guarda ad Ovest, in maggioranza cristiano, “colpevole” di aver voluto l’indipendenza da Mosca e addirittura di aver riempito le piazze sventolando la bandiera dell’Unione europea.
L’incontro di oggi potrebbe essere il concreto esempio del nostro futuro prossimo venturo. Trump, che non appena insediato ha interrotto l’invio di armi e minacciato in diretta mondiale Zelensky, ha iniziato una vergognosa e ricattatoria guerra dei dazi, pretendendo risarcimenti, investimenti obbligatori e acquisto del debito pubblico statunitense, che fomenta come Putin i partiti e i movimenti sovranisti radicali, si fa promotore di un rovesciamento delle alleanze a favore del più forte autoritarismo aggressore, palese nemico degli equilibri continentali, e che a Gaza lascia fare a Netanyahu. L’isolazionismo statunitense potrebbe essere qualcosa di più persistente di questo presidente, mentre i rischi per la sicurezza europea sono più gravi e duraturi. Trump non è e non sarà un alleato ma un sensale avversario; non possiamo più delegare la nostra sicurezza, le nostre democrazie politiche, il nostro futuro alla deterrenza USA. Per questo occorre sostenere ogni postura politica delle nostre classi dirigenti europee, a destra e sinistra, consapevoli nel voler riprendersi la propria autonomia ed il proprio destino.
Assistiamo ad un rinnovato ed esteso pregiudizio antiebraico alimentato dal doppio lassismo con cui da una parte non si è affrontata la guerra in Medio Oriente e fermato la politica razzista e suprematista del nazionalismo di destra israeliano e dall’altra, nei nostri Paesi, abbiamo lasciato consolidarsi una narrazione antisistema incoraggiata da settori specifici ideologicamente e culturalmente predisposti a considerare la civilizzazione occidentale la causa di ogni negativo. Sullo sfondo riappare oggi anche un’antica proposta e visione del mondo: terra in cambio di pace, Land for peace. Il principio alla base di numerosi tentativi di negoziazione e accordi di pace, come gli Accordi di Camp David del 1978 tra Israele ed Egitto, che portarono al ritiro israeliano dal Sinai, e gli Accordi di Oslo negli anni ’90. Ora ritorna, come un rimosso negato che riemerge, anche sull’Ucraina. I rapporti e la natura delle relazioni in gioco oggi faranno la differenza tra un accordo sofferto e una richiesta di resa che invece verrebbe respinta e sarebbe preludio di ulteriori tragedie. Ancora una volta si conferma che saranno natura e caratteristiche delle garanzie di sicurezza di difesa e militare per garantire la pace ad essere il vero fondamentale snodo che caratterizzerà la politica e quel che rimane del diritto internazionale dei prossimi anni.
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