Mondo
La guerra continua e il destino dell’ONU
24 Agosto 2025
Su Gaza, a fronte di una mobilitazione della società civile occidentale compatta, trasversale e continua, gli stati e i governi — compresi i paesi arabi vicini — si sono mossi lentamente e con una prudenza nata anche da una sfiducia e diffidenza verso l’attuale rappresentanza politica palestinese, da Hamas all’Anp, sia per le responsabilità del primo rispetto al 7 ottobre, sia per la gestione politica della questione palestinese della vecchia guardia di Arafat e Fatah.
Al contrario, per l’Ucraina, abbandonata — direi mai sostenuta con convinzione dalle piazze e dai movimenti — gli stati e i governi europei si sono attivati sia pro-Kyiv, a sostegno del coraggioso premier Zelens’kyj, sia con numerose sanzioni contro la Russia, benché occorra mettere nel conto il voltafaccia di Trump e le ambiguità complessive dell’attuale amministrazione USA che non ha mai nascosto certe comprensioni e affinità con il punto di vista di Putin.
Ma, in entrambi i casi, ad oggi si è comunque trattato di un risultato, un gioco a somma zero.
Le guerre, pur diverse per cause, genesi e dinamiche, continuano su entrambi i fronti; il numero delle vittime è irrilevante, le pressioni pure, perché si punta alla vittoria e/o alla sconfitta totale dell’avversario.
Il solo fatto di evocare una tregua o un qualche esito rafforza le offensive degli aggressori, sanguinose e violente, volte a consolidare posizioni da portare a una futuribile e lontana trattativa.
In una dimensione in cui la guerra è ormai l’unica fonte di risoluzione e di legittimazione dell’esito dei conflitti e del diritto.
Prevale la sensazione di un’irreversibilità degli eventi. A questo quadro reagiamo con un debole senso della realtà, un’inconsapevolezza del numero e della complessità delle minacce che incombono. Da qui la percezione di un caos, di un disordine che nessuna regolazione riesce oggi a governare. Eppure, questo disordine e questo caos andrebbero indagati e distinti nelle loro singole parti, per capire equilibri e rapporti di forza e proporre concrete soluzioni politiche.
L’indispensabile azione umanitaria non può essere l’alibi dietro cui nascondere la mancanza di volontà politica di leggere il conflitto e assumere concrete decisioni e azioni coerenti, dove, come ci insegna Weber, a guidarci è l’etica della responsabilità rispetto a quella dei princìpi e delle convinzioni. Ma questo comporterebbe appunto un “di più” di responsabilità e un impegno collettivo che nessuno oggi sembra avere il coraggio di assumere fino in fondo.
Paradossalmente, è l’assenza di un equilibrio, di un potente stato egemone, il vuoto di potere, ad aver consentito l’espandersi del disordine e della conflittualità endemica.
A tutto ciò non possiamo rispondere solo con meri afflati morali e pacifisti, con il rischio di persistere in un approccio basato su meta-categorie prepolitiche: bene e male, guerra e pace, giustizia e ingiustizia, su un piano etico-astratto che viaggia in parallelo rispetto al principio di realtà, in una incomprensione reciproca senza mai incontrarsi.
Le conseguenze e l’impatto di queste guerre in termini geopolitici sull’economia globale, di come si ridisegneranno gli equilibri di potere fuori e dentro gli stati, sono enormi, già in essere sotto molti aspetti ma al momento non prevedibili, se non nel rischio — fin qui evitato — di una ulteriore escalation.
Siamo tra soggetti che si muovono non secondo principi di giustizia, uguaglianza o ampliamento delle sfere dei diritti, ma per la difesa, la perpetuazione e l’espansione delle proprie egemonie.
Siamo tornati a Schmitt: sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione, di cui la guerra è da sempre la manifestazione prima e la dimensione estroflessa della forza del potere.
La crisi contemporanea sta toccando aspetti essenziali dell’ordine politico e giuridico, di quel disegno istituzionale imperniato sugli assetti multilaterali su cui si era realizzato il modello storico di convivenza degli stati. Viviamo nel pieno di cambiamenti che non riusciamo a dominare.
Il centro, il nodo oggi è rappresentato dalla crisi delle regole e della legittimità sull’uso della forza come mezzo ordinario di risoluzione delle controversie tra gli stati, una crisi la cui soluzione diventa politicamente e giuridicamente cruciale.
Quando la polvere si sarà diradata, finito il sangue sul terreno e ristabiliti i rapporti di forza, dovremo però dirci , con sincerità , cos’è rimasto del diritto umanitario e internazionale, della diplomazia e delle Nazioni Unite.
Trasformatasi nel corso dei decenni in una enorme e costosa agenzia umanitaria e centro studi, dai risultati ed efficacia altalenanti a seconda delle strutture afferenti, composta da un’élite cosmopolita sicuramente preparata e che in alcuni casi ha pagato , é doveroso ricordarlo, con la propria vita il suo lavoro sul campo in zone di guerra e di crisi, l ‘ ONU ha contribuito a una nuova narrazione internazionalista, dagli SDG all’Agenda 2030, dal climate change alla finanza e lo sviluppo sostenibile.
Ma l’obiettivo politico principale della sua missione, quando nacque nel 1945 a San Francisco, era ben altro: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Da questo evidente fallimento — di cui peraltro aveva già dato prova in altri conflitti, dai Balcani al Congo, dal Rwanda al Corno d’Africa — se ne può uscire solo con un nuovo patto tra gli stati fondatori e una riscrittura completa dei suoi poteri, funzioni e mandati, oppure, nell’80esimo anniversario della sua fondazione, con la presa d’atto politica di un’esperienza drammaticamente conclusa.
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