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Lula, tra l’Amazzonia e la Cina
Il Brasile si prepara ad ospitare la COP30 nel cuore dell’Amazzonia, un gesto simbolico che secondo Lula farà del summit la “COP della verità”. Ma il suo impegno per l’ambiente deve mediare con gli interessi economici, anche degli alleati del Dragone.
Questo articolo è stato pubblicato sulla newsletter PuntoCritico.info il 26 Settembre 2025
«La COP30 di Belem sarà la COP della verità. Sarà il momento in cui i leader mondiali proveranno la serietà del loro impegno con il pianeta». Un discorso, quello alle Nazioni Unite di Ignacio Lula da Silva, presidente del Brasile, che anche i suoi avversari in patria hanno dichiarato di rispettare, nonostante la fase politica concitata (la condanna per la prima volta di un ex presidente accusato di tentato golpe). Dei BRICS, l’alleanza anti atlantista di economie emergenti, il Brasile è sicuramente quello che più si racconta come una superpotenza “green”, che si è impegnata a «ridurre dal 59 al 67% le sue emissioni, comprendendo tutti i gas effetto serra e tutti i settori dell’economia» come dice lo stesso Lula. Ma davvero l’ex sindacalista di San Paolo è riuscito a coniugare il bisogno di crescita e la tutela dell’ambiente?
La “via brasiliana” all’ambientalismo
Intanto da “casa”, cioè dal Brasile, l’Osservatorio del Clima commenta senza entusiasmi il discorso: “corretto, ma niente di più”. Un sei politico insomma, non un 10 e lode. A pesare sulla “pagella ambientalista di Lula” lo scarso minutaggio dedicato al tema dell’ambiente (3 minuti su 18 di discorso per intero) e l’aver glissato sull’argomento combustibili fossili. “Meglio forse – commenta l’Osservatorio – considerando che il presidente nelle ultime interviste ha intessuto lodi al petrolio nonostante negli ultimi anni abbia dichiarato di voler spingere sulla transizione energetica». Il rapporto tra Lula e l’ambiente, in effetti, è quantomeno ambiguo. Da una parte la propaganda e la diplomazia “verde”, con la COP30 organizzata a Belem, il cuore metropolitano dell’Amazzonia. Una scelta non apprezzata da tutti considerando le evidenti difficoltà logistiche e i prezzi degli alloggi, proibitivi anche per le delegazioni più ricchea causa della speculazione, ma fortemente voluta dal presidente perché i Paesi di tutto il mondo possano toccare con mano i cambiamenti potenzialmente catastrofici del “polmone del Pianeta”. Dall’altra, le dichiarazioni sullo sfruttamento delle risorse, combustibili e minerarie in primis. Perché il Brasile siede su uno dei giacimenti più consistenti di terre rare al mondo: il secondo per dimensioni, superato solo dalla Cina. Ed è proprio sui progetti cinesi di sfruttamento delle risorse brasiliane che l’ambientalismo lulista vacilla.
Va detto che per qualsiasi presidente brasiliano non sarebbe facile conciliare progresso economico e ambiente. Il Brasile, con 212 milioni di abitanti, ha fame di energia e risorse, e soprattutto di opportunità economiche per quei 59 milioni di cittadini che vivono in condizioni di degrado e povertà. Un dato in miglioramento, secondo l’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGE), che nel 2024 segnalava la repubblica federale come il peggior Paese in termini di povertà nel gruppo dei G20: sempre secondo l’IBGE, le persone uscite dalla povertà nel 2023 grazie agli interventi dello Stato sarebbero state 8,7 milioni. Sono loro, in parte, la forza dell’elettorato di Lula. Lui il presidente uscito dalla favela, l’ex sindacalista che ha perso una falange in fabbrica, incarcerato durante la dittatura; loro il popolo a cui ha promesso un ampliamento delle esenzioni fiscali per i più fragili possibile solo attaccando gli ultra ricchi, con una riforma patrimoniale che promette una tassazione progressiva fino al 10% per chi guadagna oltre 1,2 miliardi di reais all’anno (circa 2 miliardi di euro). Ma la patrimoniale, ammesso che riesca a passare alla Camera questa settimana, non basta per blindare il favore alle campagne di Lula fino alle prossime elezioni. I sondaggi di questa estate sono stati quanto mai ondivaghi: una settimana Lula recuperava qualche buon punto percentuale, la settimana successiva perdeva quanto le proiezioni di appena sette giorni prima gli avevano attribuito. Colpa, tra le altre cose, dei dazi imposti dalla presidenza americana di Donald Trump, che nonostante la controrisposta della Legge di Reciprocità (una controffensiva economica) hanno causato un aumento moderato dell’inflazione. Ad oggi, il 51% dei brasiliani disapprova il governo Lula dopo un mite miglioramento nei sondaggi dovuto alla pronta risposta ai dazi nordamericani. E allora, il governo brasiliano inizia a guardare a quelle risorse inviolate, che potrebbero diventare strategiche per la transizione ecologica ma anche (soprattutto) per la sua economia. Risorse come le terre rare su cui hanno messo gli occhi nemici come Donald Trump…e amici ingombranti come Pechino.
Il Giaguaro e il Dragone
A qualche ora di distanza da Belem, la città che il Congresso ha deciso di nominare simbolicamente capitale del Brasile fintanto che ospiterà la COP30, c’è lo Stato federale del Cearà, uno degli Stati nordestini dove Lula gode ancora di larga approvazione (60% circa) nonché uno degli ecosistemi più straordinari in termini di biodiversità, tanto da attivare migliaia di turisti per il suo magnifico patrimonio naturale. Questo polmone verde, in futuro, potrebbe doversi difendere da un animale esotico non autoctono: il dragone. I mal di stomaco di ambientalisti e comunità indigene (nel Cearà risiedono tra gli altri gli indigeni Anacé) sono cominciati quando si è diffusa la notizia di una riunione a margine dei lavori in corso all’Onu. All’incontro di 30 minuti circa avvenuto nella residenza del rappresentante permanente del Brasile alle Nazioni Unite avrebbe partecipato una delegazione cinese, guidata da Shou Zi Chew, e naturalmente Lula. Oggetto dell’incontro sarebbe stata la costruzione di un grande data center di uno dei colossi cinesi più noti e controversi: Tik Tok. Un enorme impianto che dovrebbe sorgere proprio nel Cearà, e proprio sulle terre della nazione Anacé. Non solo, l’enorme complesso per raffreddare i propri server dovrebbe attingere pesantemente (si parla di milioni di metri cubi d’acqua) a un pozzo artesiano, riducendo ancora di più le risorse idriche di Caucaia, la città cearense tra le più minacciate dalla siccità: 16 fenomeni di siccità grave in 21 anni di registrazioni.
Non è la prima volta che la Cina guarda al Brasile per investimenti strategici, e non è un caso che tra tutti quelli del gruppo degli emergenti BRICS si interessi proprio a questo alleato. Il Brasile è un polo economico molto interessante per la Cina. Tra i settori su cui Planalto ha riversato più risorse c’è la digitalizzazione, un ambito strategico per Pechino e per le sue aziende tech, tra cui appunto la ByteDance (la società cinese che possiede TikTok). Ma non solo: la Cina è partner strategico del Brasile anche per le esportazioni agricole e alimentari (assorbiva il 15 % delle esportazioni di polli brasiliani prima che si diffondesse l’influenza aviaria la scorsa primavera) e di materie grezze per l’industria. Tra cui appunto le famigerate terre rare, i 17 elementi metallici vitali per l’industria tecnologica perché tra le materie prime indispensabili per la fabbricazione di chip e componenti elettronici. Anche qui, la Cina ha lanciato una vasta campagna di investimenti nel paese partner, in particolare per lo sfruttamento delle riserve brasiliane di litio. Nel 2024 dal Brasile sono partite verso l’oriente almeno 280 milioni di tonnellate di metalli rari. Nel 2025 il numero di tonnellate è addirittura triplicato, comportando un utile per il Brasile di almeno 6,7 miliardi di dollari solo nel primo semestre. Ci sono però due problemi: il primo, le riserve di metalli rari si trovano spesso ai margini o all’interno di vaste aree naturali protette, tra cui il Polmone Verde, la foresta amazzonica; il secondo, il Brasile non esporta lavorati, ma prodotto grezzo. Vale a dire che le multinazionali cinesi, una volta estratto il metallo, non lo lavorano sul posto ma lo mandano per lo step successivo in patria o in altri Paesi del Sud Est Asiatico, il che ovviamente comporta la perdita di un possibile settore di sviluppo economico per i brasiliani, vale a dire quello della lavorazione.
Il governo Lula è quindi pressato da quelli che vorrebbero che rendesse il Brasile un paese più competitivo e criticano il lassismo e la letargia di Planalto, che accusano di lasciarsi soffiare risorse strategiche dai cinesi a causa della sua inazione. Tra queste la miniera di nichel in Goiàs venduta a una società mineraria statale cinese, la MinMetals. Sono gli interessi dei gruppi industriali brasiliani e dei produttori agricoli in particolare che hanno portato, tra le altre cose, al dibattito sulla Lei de Licenciamento, ribattezzata dalle associazioni ambientaliste Legge della Devastazione. Si tratta di un pacchetto di provvedimenti che permettono di rendere più flessibili le concessioni per lo sfruttamento di terreni e risorse strategiche, quindi il permesso di aumentare il proprio impatto ambientale se l’azienda opera in “settori strategici” per lo Stato. Il dibattito scatenato dalla legge ha spinto Lula a mettere il veto su diversi punti della legge, ad esempio prevedendo che l’ “autocertificazione” di compatibilità possa essere emessa dalla stessa azienda solo per progetti di basso impatto ambientale. Il fatto che però a poche ore dal discorso all’Onu in cui ha asserito “le armi atomiche non ci salveranno dal disastro ambientale” si sia incontrato con una delegazione cinese che vuole stabilire un megacentro inquinante su un suolo già fragile, non è un buon presagio per gli ambientalisti.
A Rio de Janeiro si trova una delle installazioni permanenti più impressionanti sul cambiamento climatico: il Museo del Domani, la mostra tematica interattiva per riflettere sui temi dell’impatto antropico. Resta da capire se, in nome delle buone relazioni di vicinato a Oriente, il Brasile abbia deciso di relegare la lotta per il clima, appunto, alle teche di un museo.
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