Questioni di genere

Il Natale dei singoli e il tramonto dell’Occidente: felicità privata in una civiltà che non genera più

23 Dicembre 2025

Negli ultimi anni il Natale è stato progressivamente sottratto alla sua dimensione collettiva per essere riconsegnato all’individuo. Non più festa della famiglia, della continuità, della trasmissione, ma spazio neutro da riempire secondo desiderio: viaggi lontani, cene solitarie, volontariato, sport estremi, rituali personalizzati. Il racconto del “Natale da single felice”, oggi amplificato dai media, non è un’eccezione: è la nuova norma simbolica dell’Occidente avanzato.

Le testimonianze raccolte dai giornali parlano di sollievo, libertà, leggerezza. Donne e uomini raccontano Natali finalmente liberi da compromessi, pressioni familiari, ruoli imposti. Nessuna nostalgia, nessun senso di mancanza. E i dati scientifici sembrano confermare questa percezione: la felicità non dipende dallo stato sentimentale, ma dalla qualità delle relazioni e dall’autonomia personale.

Tutto vero. Eppure, fermarsi qui significa perdere il quadro più ampio.

Oswald Spengler, nel Tramonto dell’Occidente, distingueva tra la fase creativa di una civiltà (Kultur) e la sua fase terminale (Zivilisation). La prima è organica, generativa, simbolica; la seconda è razionale, tecnica, urbana, sterile. Nella fase civilizzatrice, scrive Spengler, l’individuo prevale sul destino collettivo, il presente sul futuro, la gestione sull’immaginazione. È la fase in cui non si costruisce più: si amministra ciò che resta.

Il Natale da single non è la causa del declino, ma uno dei suoi segnali più chiari. Non perché sia “sbagliato” passare le feste da soli, ma perché la società che lo normalizza come ideale ha smesso di considerare la continuità come valore. La rinuncia alla genitorialità non è solo una questione economica: è la conseguenza di un orizzonte culturale in cui il futuro non è più desiderabile, ma percepito come rischio.

In questo senso, la celebrazione della libertà individuale è ambivalente. Da un lato rappresenta una conquista reale: emancipazione da modelli oppressivi, relazioni infelici, ruoli soffocanti. Dall’altro, segnala l’erosione delle strutture che permettono a una civiltà di durare. Quando ogni legame è reversibile, ogni appartenenza negoziabile, ogni tradizione opzionale, la società non implode: semplicemente smette di riprodursi.

Chi oggi invoca la “difesa dell’Occidente” spesso non coglie questa dinamica. Difendere cosa, esattamente? I diritti individuali sganciati da qualsiasi responsabilità storica? Il benessere privato mentre le istituzioni si svuotano? È la stessa illusione che animava la corte di Onorio, ultimo imperatore romano d’Occidente: l’idea che basti preservare le forme mentre la sostanza si dissolve.

Quando Alarico scende in Italia, l’Impero avrebbe ancora margini di compromesso, di adattamento, di realpolitik. Ma la rigidità ideologica di Olimpio, l’incapacità di leggere il momento storico, porta al disastro. Il sacco di Roma non è solo un evento militare: è la manifestazione simbolica di una civiltà che non sa più negoziare con il reale.

Onorio resterà a Ravenna, circondato dallo splendore dei mosaici, mentre l’Impero si riduce a frammenti. Alla fine, gli resterà solo la sua gallina. Un’immagine grottesca e potentissima: la solitudine del potere quando la comunità è già scomparsa.

Il parallelo non è forzato. Anche oggi l’Occidente vive immerso in una retorica di libertà, scelta, autorealizzazione, mentre i suoi fondamentali demografici, culturali e politici collassano. Le “democrature”, i nazionalismi di ritorno, l’intransigenza identitaria non sono segnali di rinascita, ma spasmi finali di un corpo stanco.

Il Natale, in questo scenario, non unisce né divide: rivela. Amplifica ciò che già siamo. Se siamo individui autosufficienti, lo celebra. Se siamo comunità fragili, lo mette a nudo. Non c’è nulla di moralmente riprovevole nel vivere le feste da soli. Ma raccontarlo come apice della realizzazione umana significa accettare, consapevolmente o no, di abitare una civiltà che ha smesso di generare futuro.

Forse, allora, la vera onestà intellettuale non sta nel difendere l’Occidente come se fosse ancora vivo, né nel demonizzare chi sceglie la solitudine. Sta nel riconoscere che siamo entrati in una fase nuova, incerta, probabilmente irreversibile. Come dopo il 423, quando l’Impero d’Occidente non c’era più, ma molti continuavano a fingere il contrario.

Accettare il tramonto non significa disperare. Significa smettere di illudersi. E guardare, finalmente, ciò che nasce dopo.

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