Le comunità energetiche in Italia: una storia ancora tutta da scrivere

30 Novembre 2017

In Germania, quando devono installare nuovi impianti eolici, organizzano un’asta. Lo stato definisce quanta nuova potenza serve (quindi quanti nuovi impianti servono) e poi chiede a chi è interessato di presentare domanda. Gli operatori interessati devono dire a che prezzo sono disposti a produrre (e vendere) l’elettricità. Se vengono proposti più impianti di quanto previsto, i contratti vengono stipulati con gli operatori disposti a vendere al prezzo più basso.
Lo scorso 22 novembre si è svolta la terza asta dell’anno per impianti eolici a terra. Ad aprile il prezzo di assegnazione era pari a 5,7 centesimi per chilowattora, ad agosto il prezzo si è abbassato a 4,3 e a novembre ha raggiunto i 3,8 centesimi per chilowattora, con una diminuzione di un terzo in sei mesi. In pratica è il mercato a definire l’incentivo, non lo stato. Il meccanismo delle aste non è la panacea, ma di sicuro aiuta a minimizzare i costi delle realizzazioni. Per fare un paragone, il prezzo dell’elettricità all’ingrosso in Italia nel 2017 è oscillato tra un massimo di 7 e un minimo di 4 centesimi.
Sempre in Italia è accaduto recentemente che un progetto per un impianto eolico in mare venisse bocciato dal TAR della Sicilia per l’opposizione di innumerevoli comitati locali. Un progetto del 2003, autorizzato nel 2013 e ora apparentemente bocciato per sempre.
Il problema non è chi abbia ragione nel caso specifico. Il problema è che quando in un mercato l’incertezza domina sovrana, quando un operatore deve aspettare 14 anni per sapere cosa ne sarà del suo progetto, inevitabilmente i costi di realizzazione si alzano. E per realizzare gli impianti servono incentivi più alti, non perché le rinnovabili siano più care, ma perché i rischi sono troppo elevati. Con un meccanismo di autorizzazione e di assegnazione più trasparente e certo si potrebbero realizzare tanti impianti e con incentivi monetari minimi o nulli, arrivando a sfruttare finalmente anche nel nostro paese i risultati della rivoluzione che sta avvenendo ovunque nel mondo.

Ma dall’asta tedesca emerge anche un altro dato significativo. Complessivamente erano stati presentati 210 progetti per un totale di circa 2,5 GW installati, ma ne sono stati ammessi solo 61, in grado di coprire le richieste pari a 1 GW. Si tratta di un investimento complessivo con tutta probabilità superiore a un miliardo di euro.
Dei 61 progetti presentati, ben 60 sono stati sviluppati da cooperative di cittadini. Non è certo un risultato casuale, visto che le regole di assegnazione del bando favorivano le iniziative delle comunità energetiche. E oggi la discussione è su quanti di questi progetti siano effettivamente di comunità e quanti invece siano semplicemente realizzati da investitori tradizionali che si sono fatti passare per cooperative, rispettando la lettera ma non la sostanza dei criteri del bando.
Il risultato è comunque molto significativo, soprattutto se paragonato (ancora una volta) al caso italiano, dove le comunità energetiche, seppur virtuose, sono rare e di dimensioni normalmente molto piccole. Peraltro la recente Strategia Energetica Nazionale cita le comunità energetiche meno di dieci volte in 316 pagine, facendo quasi sempre riferimento a quanto previsto dall’Unione Europea (in particolare dal Clean Energy Package, pubblicato esattamente un anno fa). Ma perché dovremmo occuparci del ruolo dei cittadini organizzati in cooperative nella transizione verso le rinnovabili?
Le iniziative delle comunità energetiche non sono un fenomeno nuovo ma si svilupparono a partire dalla fine del XIX secolo in diversi paesi europei, compresi la Germania e l’Italia. Esperienze simili sono state poi riproposte con lo sviluppo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili quando negli anni ’70 in Danimarca si affermarono le prime cooperative eoliche e successivamente soprattutto in Belgio e in Germania inseguito all’incidente di Chernobyl nel 1986. Ma è a partire dagli anni 2000 che si sono affermate come nuovo possibile paradigma per l’impegno dei cittadini nella transizione energetica, facilitato e guidato dalla liberalizzazione dei mercati energetici.
Nelle comunità energetiche i cittadini partecipano direttamente alla progettazione e al finanziamento di nuovi impianti rinnovabili (o in alcuni casi di interventi di efficienza energetica). Spesso la ragione sociale scelta è quella della cooperativa, ma in ogni caso il processo decisionale è aperto e democratico. In questo modo il controllo dei progetti rimane sotto la responsabilità della comunità. La localizzazione e le dimensioni degli impianti vengono decise in maniera partecipata. Inoltre i benefici economici vengono diffusi sul territorio e non sono più a vantaggio di anonimi investitori che spesso vengono considerati dei veri e propri invasori da parte delle comunità locali.
Il meccanismo delle comunità energetiche facilita quindi l’accettabilità sociale degli interventi di sviluppo delle rinnovabili, superando la sindrome Nimby. Per questo motivo ha trovato il supporto legislativo in diversi paesi europei: esenzioni fiscali come nel Regno Unito e in Danimarca; un accesso privilegiato a prestiti derivanti da specifici fondi governativi come in Germania e Scozia; una pianificazione energetica che limita la proprietà degli impianti rinnovabili (o almeno una quota di essi) ad attori locali, come è stato fatto in Danimarca all’inizio degli anni 2000 e più recentemente in Scozia; incentivi differenziati agli impianti rinnovabili che favoriscano i progetti comunitari (nel Regno Unito è previsto all’interno del Conto Energia, mentre in Germania nelle aste per i nuovi impianti e invece in Francia è incentivata l’elettricità prodotta da impianti finanziati in crowdfunding).
Un recente studio mostra come entro il 2025 l’83% dei cittadini europei potrebbe avere un ruolo diretto nello sviluppo delle fonti rinnovabili attraverso nuovi impianti o attraverso la gestione della domanda. Il coinvolgimento diretto dei cittadini nella transizione energetica potrebbe facilitare anche i processi autorizzativi.
L’Italia finora non sembra avere intenzione di sfruttare questa miniera. Vogliamo provarci?

(in collaborazione con Chiara Candelise)

 

(nell’immagine alcuni soci della cooperativa Energiegenossenschaft Starkenburg, in Assia,
e la loro turbina eolica da 2 MW)

TAG: comunità, conto energia, energie rinnovabili, produzione energia
CAT: Beni comuni, energia

Un commento

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  1. marco-baudino 6 anni fa

    Gianluca buona sera. Credo ne avessimo parlato una volta a pranzo. Sono dell’idea che le fonti rinnovabili più utili e vicine ad una “comunità energetica” siano quelle che, oltre a produrre energia pulita, svolgono un ruolo sociale e di servizio. Mi spiego: il MINI Digestore Anaerobico di concezione Svizzera, che sto cercando di portare in Italia e per cui sto cercando alleanze di territori “aperti”, permette la valorizzazione di scarti organici che una comunità produce “fisiologicamente”: sfalci potature scarti verdi; scarti alimentari delle cucine, principalmente. Scarti che diventano davvero fonte di reddito e di economia circolare, semplicemente perché vengono smaltiti (necessariamente …) con la loro valorizzazione grazie alla innovazione. Il sistema che proponiamo e’ un sistema attivo, coinvolgente, democratico, utile: hai degli scarti da smaltire in una comunità, li smaltisci, li trasformi in energia e concime organico biologico e NON butti via niente. Meglio di un sistema di produzione di energia “passivo” che “costringe” a confrontarsi con il mercato come nel caso del solare e dell’eolico, dipendente tra l’altro ad un pesante problema di autorizzazione. Che in Italia non favorisce mai “il piccolo”! Nel caso “attivo” suddetto invece si parte da una necessità : smaltire uno scarto, da smaltire… Ed ecco che il sistema di MINI Digestione Anaerobica al servizio della comunità diventa un esempio certo di vera economia circolare NON speculativa. Il caso invece del solare o eolico non e’ rigenerativo, non è necessario, non parte da un bisogno non sostituibile; ancora di più potrebbe NON coinvolgere la gente, se non con una potenziale speculazione direttamente legata a tecnologie “passive”. Spero di essere stato chiaro.
    Potremo tornare sull’argomento la prossima volta, alla prossima occasione, magari scrivendo una storia migliore di quella che descrivi tu, in riferimento alla Germania. Visto che tra l’altro in Italia sarebbe “una storia ancora tutta da scrivere” e, provandoci, potremmo fare molto meglio… In Toscana ci sto lavorando… Perché no in Lombardia?

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