La percezione della privacy dopo Snowden, ovvero perché siamo il Grande Fratello
Si dice che il principe di Condé dormì profondamente la notte prima della battaglia di Rocroi. O almeno, ce lo raccontano Manzoni e Balzac. L’opinione pubblica invece continua a dormire sonni tranquilli dopo lo scandalo NSA e le rivelazioni sullo spionaggio a tappeto condotto dall’intelligence americana. O comunque turbati da poche interferenze e nessun incubo personale, a quanto ha potuto rilevare il Pew Research in un’indagine i cui risultati sono stati pubblicati ieri, 16 marzo. Sono trascorsi più di venti mesi da quando Greenwald su The Guardian ha cominciato a pubblicare i documenti riservati della National Security Agency, consegnati dall’ex collaboratore a contratto Edward Snowden: tra il giugno e il dicembre 2013 il mondo è stato inondato di dettagli su come i servizi segreti americani, e i loro alleati europei, procedessero da anni a monitorare e registrare le conversazioni telefoniche di tutti noi, le mail, le chat, i post sui social media, le conference call, le rubriche di contatti. Nelle intenzioni, e sostanzialmente di fatto, nessuno di noi ha potuto mettersi al riparo dalla curiosità morbosa di questi ficcanaso pagati con soldi pubblici (e non poco, se il Washington Post stima in oltre 500 miliardi di dollari l’investimento americano tra il 2001 e il 2013).
L’indagine del Pew Research è volta a scoprire se le rivelazioni di Snowden abbiano convinto i cittadini americani a modificare i loro comportamenti nelle comunicazioni via telefono, tramite chat e sui social media, o se in qualche modo hanno tentato di proteggere la riservatezza dei dati personali nelle navigazioni online e nell’imputazione delle query sui motori di ricerca. Il primo elemento rilevato da Rainie e Madden, responsabili dell’esplorazione, è piuttosto confortante: il 90% degli intervistati ha almeno sentito parlare dello scandalo: in Italia il risultato avrebbe di certo suscitato qualche preoccupazione in più. Solo il 31% ha seguito il flusso delle notizie con attenzione, e circa uno su tre dei cittadini informati ha deciso di ricorrere a qualche precauzione per nascondere i propri dati all’indiscrezione del governo (o almeno rendere la vita un po’ più difficile agli impiccioni dell’intelligence). Le preoccupazioni maggiori sono state riservate alla posta elettronica: il 18% degli intervistati dichiara di aver modificato almeno un po’ il proprio comportamento nell’uso dell’email; seguono a poca distanza le precauzioni nei confronti dei motori di ricerca (17%), poi rispetto a social media e cellulari (15%).
Il punto di vista degli esperti del Pew Research emerge nella focalizzazione sulle domande relative agli strumenti tecnologici adottati dagli intervistati nella protezione dei loro dati. L’indice della coscienza civile correlata alla difesa della privacy si esprime nell’attenzione che gli utenti dei media digitali riservano ai dispositivi software utili all’anonimizzazione dei propri dati di navigazione, alla crittazione delle email, alla deviazione dei sistemi di tracciamento. Con una nota di scandalo Rainie e Madden descrivono la rassegnazione con cui il 54% ritiene che non esistano risorse tecnologiche davvero efficaci nel fermare le operazioni di spionaggio che vengono condotte nei confronti della popolazione, americana e straniera. Questa sfiducia si traduce nella decisione di non avviare nemmeno la ricerca e la sperimentazione di tool come PGP per la posta elettronica, o di Tor.
La concentrazione sugli strumenti software sembra quasi distrarre i ricercatori da un dato molto allarmante che emerge dalle loro domande. Il 17% degli interlocutori afferma di essere molto ansioso per l’intensità delle operazioni di spionaggio del governo, e un altro 35% sostiene di essere abbastanza preoccupato; eppure un gran numero di loro ritiene che comunque la questione non sia applicabile a se stessi in prima persona. Il tema per gli intervistatori passa così tanto in secondo piano, che non viene nemmeno esplicitato il numero percentuale di campioni che si sono abbandonati a questa osservazione. A quanto pare però, il volume di cittadini che la pensano in questo modo è molto consistente, perché il programma di controllo statale è di per sé criticabile, ma «they are not personally concerned because they have “nothing to hide”». Se non si ha nulla da nascondere, non c’è nulla da temere da una radiografia completa di tutto quello che si fa o si dice. Se dessero però un’occhiata al profilo dei loro interessi tracciato dalla memoria sistematica che Google conserva di tutte le loro interrogazioni e le interazioni con i contenuti web – o meglio, se lo facessero consultare al loro psicanalista – si accorgerebbero che c’è poco da fidarsi anche della propria buona fede. Se siamo quello che clicchiamo, la nostra realtà autentica è sconosciuta più del nostro inconscio più buio (ma non per Mountain View). Per di più, l’opinione pubblica è spaccata esattamente a metà sulla convinzione che giudici e corti di giustizia sappiano bilanciare la foga investigativa dell’intelligence con i requisiti di legalità imposti dal diritto alla privacy.
Probabilmente il gran numero di cittadini americani non ricorda, o non conosce, i progetti di polizia pre-crime che sono già all’opera sul territorio USA, e che producono situazioni come quella di Robert McDaniel: il ragazzino 22enne di Chicago è finito sulla heat list della polizia, pur essendo incensurato, perché il software di previsione della criminalità urbana ha vaticinato per lui un destino nelle fila della delinquenza locale e nelle carceri cittadine. L’obiettivo dei dipartimenti pre-crime infatti è quello di anticipare gli eventi criminosi, attraverso l’identificazione dei soggetti e delle situazioni che espongono la comunità ad un rischio potenziale di aggressione fisica o alla proprietà: una modalità informatica di Minority Report. I dati che alimentano i sistemi digitali dei dipartimenti sono meno ricchi di quelli che affollano gli archivi dell’NSA, ma i criteri che motivano il loro accumulo e la loro elaborazione non sono diversi. Il controllo a tappeto è diretto verso una capacità di previsione complessiva e di dettaglio. L’opinione pubblica tende a sottovalutare o a dimenticare la forza sistematica di custodia della memoria da parte dei dispositivi informatici. Quello che oggi è irrilevante, non per questo viene accantonato o cancellato da un database; e in futuro qualunque decisione amministrativa relativa alla sicurezza nazionale, o alla vita degna di essere vissuta – secondo il grado di liberalità del regime che la argomenta – potrebbe convertirla in un criterio utile per le valutazione del dipartimento di difesa preventiva di turno.
Ma la disponibilità dei dati per le operazioni di controllo e predizione da un lato, e la tensione spontanea del pubblico a produrli dall’altro lato , sembrano essere due fenomeni connessi. Solo il 31% degli intervistati afferma di essere preoccupato per la sorveglianza amministrativa applicata ai social media, contro il 38% in ansia per il contenuto delle email e il 37% per le conversazioni via cellulare. Non possiamo più fare a meno di trasformare i cocci inutili della nostra esistenza quotidiana in monumenti potenzialmente resi immortali dalla viralizzazione su Twitter e su Facebook, e dalla memoria sconfinata di Google. Anche a costo di bendarci occhi e orecchie davanti all’evidenza che i dati esposti rischiano di essere tracciati e di convertirsi nel nostro monumento funebre. Vogliamo il Grande Fratello, nelle sue apparizioni con le sembianze innocue dei post sui social media e con la disponibilità illimitata di risposte ad ogni domanda, a ogni crampo mentale, sui motori di ricerca.
La politica del Controllo e la comunità che produce i dati da controllare sembrano essere i due poli di una stessa forma sociale: l’espressione di una stessa volontà che riforma allo stesso tempo il profilo dell’identità personale, e le funzioni di programmazione dell’amministrazione pubblica.
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