Cosa spinge un uomo che ha vinto tutto quello che era possibile vincere a trasferirsi nella periferia del calcio mondiale, in un posto in cui dello sport a cui lui ha dedicato per una vita anima e cervello – un cervello che, ne siamo certi, applicato a qualunque altro settore della conoscenza non avrebbe prodotto niente di diverso dall’eccellenza assoluta – a nessuno frega un accidente di niente?
Per scoprirlo un pomeriggio di fine di aprile siamo andati nel Bronx, nello stadio dei New York Yankees – il team professionistico più vincente della storia americana – per vedere dal vivo il New York City FC, ovvero la squadra in cui, dalla scorsa estate, gioca il Maestro (come lo chiamano da queste parti) Andrea Pirlo.
L’arrivo allo stadio, per chi – come noi – ha passato una vita fuori da San Siro è uno shock culturale. Al posto dei baracchini delle salamelle unte, ovvero una delle poche ragioni per cui vale la pena vivere, ecco alcuni chioschetti di spremute o smoothie salutisti. Accogliere un tifoso di calcio in un simile modo, è – a parere di chi scrive – offensivo come offrire bacon a un mussulmano.
La sorpresa è rincarata quando notiamo alcune signorine sorridenti avvicinare i tifosi ed esporre un cartello con scritto “come posso aiutarti?”. Ecco, per fortuna di queste signorine, da queste parti di ultras o anche solo di giovani cresciuti coi film di Jerry Calà se ne vedono pochi.
Entriamo nello stadio nel settore riservato ai giornalisti e dopo essere sopravvissuti a un “media meal” con scelta di pollo fritto o merluzzo fritto o patatine fritte, in un ambiente più simile al dopolavoro ferroviario di Voghera che al ventre di uno degli impianti sportivi più famosi al mondo, ci vengono consegnate le pettorine per entrare in campo.
Il colpo d’occhio non è trascendentale: rispetto a una partita degli Yankees, ci sarà un terzo della gente.
A sorpresa, scopriamo però che anche il New York FC ha una sorta di tifo organizzato: solo che, come gran parte delle cose che riguardano il soccer negli Stati Uniti, si tratta della versione americana del tifo calcistico europeo e il tutto finisce col produrre un effetto grottesco, lo stesso che si prova quando ci si imbatte in quei terribili sosia dei personaggi famosi, tipo il sosia di Pavarotti o la sosia di Liz Taylor. I tifosi americani infatti hanno capito che i tifosi europei cantano durante la partita, ma non hanno compreso che tali canti sono sì ricalcati su musiche già note, ma le parole vengono modificate e trasformate in cori di incitamento alla squadra. Tutto questo sfugge all’ultras a stelle e strisce che così passa 90 minuti a cantare canzoni tipo “Oh when the saints go marching in” o “Hey Baby I wanna know” fino a “I love you baby” esattamente come le si ascoltano alla radio.
Così, mentre le decine di supporters intonano come un sol uomo “I love you baby, and if it’s quite all right” uno pensa che magari sarà proprio Andrea Pirlo ad andare sotto la curva e insegnargli a cantare, sulla stessa area, “Andre-a Pir-lo shalalalalala, Andre-a Pirlo shalalalala” proprio come una volta si faceva in curva Sud.
Già, Andrea Pirlo.
Ogni volta che tocca il pallone durante il riscaldamento, il pubblico fa “oohh”. Quando si avvicina alle tribune, gli urlano – in italiano – “Maestro!”. Lui alza la testa, saluta, e l’americano è già li a twittare in tempo reale quanto è awesome che l’amazing Pirlo abbia salutato proprio lui.
Perché comunque il pubblico c’è: meno che nel baseball, certo, ma visto che il settore superiore dello stadio è chiuso e che lo Yankee Stadium ha una forma “a catino”, le tribune inferiori sono gremite e da bordo campo (dove eravamo noi) non si ha quell’effetto di desolazione che invece, per esempio, si vive a San Siro o all’Olimpico di questi tempi. Certo il pubblico è particolare: tantissimi bambini – perché il soccer è il primo sport che viene insegnato a scuola, per poi venire abbandonato dopo i 10 anni -, turisti asiatici e arabi, sudamericani e italo-americani per i quali lo stadio di calcio resta un atto di rottura culturale per riaffermare le proprie origini.
Poco prima che cominci il match, è ancora la supposta “curva” a farsi notare: sul maxi-schermo viene infatti ripreso l’ingresso delle forze dell’ordine. Mentre nella testa sembra di sentire automatico il coro “la disoccupazione…” ecco che gli ultras americani si alzano in piedi e, applaudendo, cantano “we are proud of you/siamo orgogliosi di voi”; a questo punto, in un totale cortocircuito, poliziotti e pompieri tirano fuori ognuno una sciarpa della squadra e durante questa sciarpata in divisa le squadre entrano in campo.
E’ il momento degli inni: tutti in piedi e mano sul cuore.
I giocatori fanno le facce serie-serie, nessuno canta perché a cantare ci pensa una cantante soul del college di Harlem. In tutto questo pomposo sforzo di retorica patriottica, come sempre durante gli eventi sportivi americani, le emozioni rimangono estranee, e mentre la gente addenta voracemente hot dog venduti a 12 dollari l’uno, per finirli in tempo per battere le mani, uno pensa al pathos che con due note l’inno della Champions’ riusciva a trasmettere, e si chiede come faccia, Andrea Pirlo, a non scoppiare a ridere.
Finalmente comincia la partita che vede il New York City FC vedersela contro il Vancouver. Passano 70 secondi e il portiere new yorkese si inventa una papera che neppure Dida dopo una pera di Serenase. Dopo un retropassaggio prima cincischia, poi la rinvia sui piedi dell’attaccante appostato a un metro, che ovviamente insacca. Zero a uno.
La partita riprende e nel New York sale in cattedra un certo David Villa, anche lui emigrato da queste parti. A 35 anni il capocannoniere del Mondiale 2010 vale circa sei Balotelli e mezzo, corre e lotta alla morte su ogni pallone, è decisamente di diverse categorie superiore rispetto agli altri. Infatti prima dell’half time ha già fatto due goal, di cui il secondo in semi rovesciata su angolo proprio di Andrea Pirlo.
Ed è li, subito dopo i goal, che forse capiamo il perché della scelta.
Il boato. Perché, d’accordo i cori scarsi e i posti vuoti e l’atmosfera improbabile, ma alla fine è solo il boato che conta davvero, e il boato dello Yankee Stadium è sincero, appassionato, esattamente come quello di San Siro o dello Juventus Stadium. Solo che qui nessuno si alza e maledice la tua stirpe come in una puntata di Game of Thrones al primo passaggio sbagliato, in tribuna stampa non ci sono giornalisti pronti a chiedere al tuo mister perché insista a far giocare un vecchio e sui giornali il giorno dopo non usciranno titoloni o editoriali per dire che devi farti da parte e dare “spazio ai giovani”, come se fosse colpa tua se oggi la nazionale italiana gioca con una squadra dove anche solo un Alberigo Evani spiccherebbe tipo Maradona.
A New York non c’è, insomma, quello che ha dovuto sopportare Totti negli ultimi anni prima di infilare a Lorsignori le due suppostone su per l’Olimpico e il calcio – per quanto modesto nel livello tecnico – è ancora puro ed incontaminato nel suo aspetto più sentimentale: e arrivati a una certa età, con una certa bacheca e un certo conto in banca, la possibilità di poter giocare a calcio solo per sentimento crediamo sia la fortuna migliore che ti possa capitare.
La partita continua, Andrea Pirlo sbaglia un corner e lo applaudono come se avesse segnato. Quando non porta palla si sbraccia come un dannato: ogni volta che un compagno ha il pallone tra i piedi gli grida “long, long!” o “here, here!” indicando come un vigile urbano un altro compagno libero a cui sarebbe bene passare. Purtroppo i piedi degli altri sono quelli che sono, e le intuizioni del Maestro rimangono spesso lettera morta, oppure si trasformano in lanci alla viva il parroco che finiscono direttamente in tribuna. In più, quello sciagurato del portiere ne combina una via l’altra e il Vancouver pareggia su rigore, prima del definitivo 3 a 2 propiziato ancora una volta da David Villa a pochi minuti dalla fine.
Siamo al fischio finale, ed ecco un’altra grande ideona del soccer a stelle e strisce: siccome scambiarsi le maglie o lanciarle ai tifosi è vietato per gli accordi commerciali con gli sponsor, ai giocatori sono consegnati dei piccoli palloni che loro autografano e poi lanciano di persona sotto la curva.
Fuori dallo stadio, la discussione è se la partita appena vista possa essere paragonabile almeno alla nostra serie B o – più probabilmente – ad una della vecchia serie C. Ma non c’è tempo per parlarne. Sono le 6 PM, la gente corre verso la metropolitana: sta per cominciare il terzo giorno del draft della NFL, e quella si che è una cosa seria, mica il soccer. I bar si riempiono, sui marciapiedi del Village ci sono ragazze sole già vestite per uscire. Il cielo è buio, la notte illuminata dalle luci colorate dell’Empire: a New York è cominciato l’ennesimo sabato sera e della partita nessuno ricorda più nemmeno il risultato.
“One old-fashioned, please”, mentre in sottofondo la curva Sud non smette di cantare Andre-a Pirlo shalalalala, Andre-a Pirlo shalalalala, Andrea Pirlo….
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